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Il commento

“Il caso Bianco”, quei ruoli ad alto rischio

La sentenza che ha decretato l'incandidabilità dell'ex sindaco di Catania è una questione che riguarda anche il perimetro della responsabilità - penale, civile, contabile - di chi amministra.

Di Antonello Piraneo |

Sarebbe qualcosa di somigliante a un incrocio tra Scherzi a parte e il pesce d’aprile, non fosse che qui le cose accadono per davvero e avvolgono Catania – e con essa un pezzo importante della Sicilia – nella nebulosa dell’incertezza, proprio nel momento in cui bisognerebbe svoltare e salire su un qualsiasi vagone del treno che porta verso un futuro diverso, possibile.

Più o meno tutto d’un fiato: un sindaco sospeso, anzi no, e poi invece sì; un commissario nominato e revocato in corsa perché si scopre, ovviamente dopo, che non aveva i giusti titoli, e un altro che arriva per portare la croce per spiccioli di mandato; un candidato che scende in campo, segue il telaio che intesse le alleanze e sul più bello fa marcia indietro per improvvisi, ambigui e comunque ingombranti motivi personal-politici; altri che si autoinvestono sgomitando; infine quelli a far da contorno con il proprio cognome e poco più. Un luna park. Da questa giostra Enzo Bianco scende per sentenza, nei giorni in cui si apprestava, giocoso, a svelare il mistero – invero poco misterioso – di quei manifesti con una mano intenta a “sbiancare” lo sfondo nero con un pennello a rullo. Invece game over, anche qui.

All’ex sindaco di Catania ed ex ministro dell’Interno, incandidabile per dieci anni, i giudici contabili contestano, di fatto, di non aver dichiarato il dissesto – tutti sanno che non lo avrebbe sottoscritto neanche sotto tortura, «per il bene della città», sottolinea con orgoglio, e anche, aggiungiamo noi, per la visione napoleonica che ha sempre avuto dei suoi incarichi: e il sindaco di un Comune in default è un sindaco al ribasso – o comunque di non avere inciso in profondità nei conti pur avendo rimodulato più volte, legittimamente, il piano di rientro che non gli apparteneva. L’ultima volta non gli riuscì perché il Consiglio ritenne che si fosse fuori tempo massimo.

La difesa dell’ex sindaco parla di dettagli simili a cavilli rispetto alla montagna di debiti ereditati, di percentuali infinitesimali di voci a confronto del moloch di un bilancio comunale peraltro gravato dalla precedente dichiarata condizione di predissesto. Sarà la Cassazione, naturaliter, a mettere la parola fine a una vicenda che comunque, è bene dirlo, va oltre Catania. Sarebbe infatti riduttivo parlare di “caso Bianco”, perché, letta a freddo, la questione riguarda piuttosto il perimetro della responsabilità – penale, civile, contabile – di chi amministra. Uno spazio che oggi si slarga fino a farsi prateria per la situazione disastrata degli enti locali, tra casse vuote e pochi funzionari (spesso pure incompetenti) e spinge i sindaci, in maniera assolutamente trasversale e certo non a caso, a sollecitare intanto la riforma dell’istituto dell’abuso d’ufficio. Nessuna impunità, s’intende, ma una visione lucida della pubblica amministrazione, dei problemi che si affrontano nella quotidianità “del fare” sarebbe d’aiuto per compiere le scelte giuste.

Invece, stando così le cose, la paura della firma non appartiene soltanto a grigi travet capaci di fare scappare chi qui vorrebbe investire – la lista s’allunga pericolosamente per le croniche lentezze della Regione – ma anche a chi sceglie di metterci la faccia: per vocazione, passione, ambizione.Ecco il punto, peraltro alla vigilia di una tornata amministrativa che in Sicilia riguarda un terzo dei comuni. Fare il sindaco oggi è certamente una scelta di campo, diremmo pure di vita, ma più che una missione è anche una scommessa. E avvertiamo il rischio che punti forte sul piatto delle nostre città soltanto chi è animato da cinismo e carrierismo politico, chi è spregiudicato, chi è pupo dei pupari, chi mette in conto tutto e pure di più.Essere smentiti, stavolta, sarebbe bellissimo.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA