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IL COMMENTO

Il maxiprocesso alla mafia, il senso della storia e lo Stato di diritto

Sembrava ormai appartenere a un repertorio d’antan la polemica sul maxiprocesso, ma sono bastate qualche battuta di una docente di Procedura penale dell’Università di Palermo e la reazione del magistrato Nino Di Matteo a rimetterla inopinatamente in scena

Di Tommaso Rafaraci* |

Sembrava ormai appartenere a un repertorio d’antan la polemica sul maxiprocesso, ma sono bastate qualche battuta un po’ troppo estemporanea di una docente di Procedura penale dell’Università di Palermo e la reazione del magistrato Nino Di Matteo, durante un incontro con gli studenti, a rimetterla inopinatamente in scena. Il maxiprocesso è stato un obbrobrio giuridico, dice la docente. È inaccettabile, replica Di Matteo, che sia definito così uno dei pilastri della lotta alla mafia, ed è un insulto alla memoria di Falcone e Borsellino, che avevano il culto delle regole dello Stato di diritto.

Per la verità, l’incontro verteva sul tema della lotta alla mafia dal ’92 all’arresto di Matteo Messina Denaro e le considerazioni critiche della giurista si rivolgevano innanzitutto proprio alla legislazione emergenziale del 1992, conseguita alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Il discorso tuttavia rifluisce, quasi ineluttabilmente, verso l’esperienza del maxiprocesso, e non di un maxiprocesso qualunque, ma proprio del primo grande maxiprocesso a Cosa Nostra, svoltosi tra il febbraio del 1986 e il dicembre del 1987, sulla base dell’inchiesta condotta da Giovanni Falcone, insieme con Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli.

La prospettiva storica

Su questo terreno delicatissimo e politicamente insidioso è mancata tuttavia, da parte della docente, la giusta prospettiva storica. Scartato in ogni caso il termine “obbrobrio”, di per sé carico di connotazioni etiche negative, più che legittimo sarebbe stato parlare di processo “monstre”, che cioè per le sue dimensioni recava con sé obiettivamente, al di là di ogni buona intenzione, la tara di approssimazioni inevitabili in termini di effettività delle garanzie processuali. Dopodiché, appunto in prospettiva ormai storica, occorreva prendere atto di altri fattori: quel processo “monstre” aveva premiato la grande, unitaria istruzione che aveva svelato per la prima volta la struttura stessa di Cosa Nostra.

L’impegno istruttorio

Troppo importante, comunque troppo denso e ricco di risultati poco prima impensabili era stato l’impegno istruttorio del 1983-1985 per essere frammentato. Si andò fino in fondo e fu tale inchiesta a segnare il vero salto di qualità: lavoro in pool, visione d’insieme, nuove tecniche d’indagine (pure patrimoniale e bancaria).

Il dibattimento, anche perché svolto secondo le regole del codice di procedura penale del 1930, aveva finito per adeguarsi alla forza di quegli esiti istruttori. Da quella esperienza, negli assetti del nuovo codice di rito, sarebbero nate le Procure distrettuali e, per il coordinamento delle grandi indagini, la Procura nazionale antimafia, mentre per contro nulla sarebbe venuto a togliere ai maxidibattimenti le note della ingestibilità e della difficile compatibilità con il rispetto effettivo delle regole e dei diritti. Resta una forzatura pretendere di giudicare in un solo contesto decine o centinaia di persone.

Le regole dei processi per mafia

La polemica però è andata, a quanto pare, oltre il maxiprocesso per investire più ampiamente, l’assetto regolativo dei processi per fatti di criminalità organizzata mafiosa dal 1992 in poi (che era, in verità, il tema dell’incontro). A questo proposito, almeno a quel che si legge, un po’ di senso della storia sembra essere mancato anche a Nino Di Matteo. Infatti, quando la docente ricorda la stagione della legislazione di emergenza successiva alle stragi del 1992, cui conseguirono forti restrizioni di diritti fondamentali – a cominciare dal diritto al contraddittorio – per gli imputati per fatti di mafia, il magistrato rivendica il contesto di piena legalità e di pieno rispetto dei diritti della difesa in cui si sono sempre svolti i processi di mafia.

Ecco il deficit di senso storico: occorreva forse ammettere che solo la gravità e la straordinarietà della situazione permisero di tollerare limitazioni di diritti e garanzie processuali elementari, poi via via eliminate o quantomeno ridotte a seguito della riforma costituzionale sul giusto processo e della sua attuazione.

*Ordinario di Procedura penaleUniversità di CataniaCOPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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