L'iperconnessione dei ragazzi in vacanza
Che fare? Le soluzioni ci sono, eccone alcune
computer_2mani_ftg_1618353353736
È sempre più difficile, per i genitori di oggi, gestire tre mesi di vacanza senza correre il rischio che i figli, i celebri “nativi digitali”, s’incollino ai device dalla mattina a alla sera. I ragazzi prima “rinunciano” alla socialità, poi si chiudono in casa, quindi diventano dipendenti dallo smartphone, dai tablet, dalle connessioni più in generale. Succede ogni estate, è inutile negarlo.
Colpa della rivoluzione tecnologica, colpa delle famiglie “abbandoniche”, colpa della società ipertecnologica degli anni Duemila. Che fare? Le soluzioni ci sono, eccone alcune.
Approfittando del fatto che i ragazzi sono liberi dagli impegni scolastici, l’occasione deve diventare buona, propizia per sollecitarli ad appassionarsi a quelle alternative all’online, che, a partire dallo sport, passando per il cinema e i concerti live, tanto per fare solo un paio di esempi, possano aiutarli a mettere da parte i telefonini, i social e i videogiochi almeno durante la bella stagione.
Da dove cominciare? Da due punti fermi. Il primo è rappresentato dal proverbio inglese “use it or loose it”, che in italiano suona così:“O lo usi o lo perdi”, con il chiarissimo riferimento al nostro cervello, e a quello dei giovani più specificatamente: un muscolo, il loro, sempre più robotizzato, sempre più tecnologico, come sostiene lo psichiatra Andreoli. Il secondo riguarda il gioco, sulla cui importanza ci sono vecchi e nuovi studi scientifici. In uno della università inglese del Middlesex, la neurofisiologa infantile Jacqueline Harding ha dimostrato che «giocare è uno dei metodi migliori per ridurre lo stress, migliorare il benessere mentale e aiutare a sviluppare la resilienza, l’ottimismo, la perseveranza».
Grave. Il pensiero si nutre di parole e un cervello che non pensa diventa presto arido, rallenta, si blocca come quello di tanti, troppi giovani d’oggi. Quelli che non pensano.
Per fortuna sono sempre più numerose le ricerche che mettono in relazione la necessità di mantenere attivo il nostro cervello fin dalla infanzia per evitare il pericolo di malattie e sindromi debilitanti. Se si vuole evitare tutto questo basta ricorrere fin da ragazzi ai sempre validi giochi di passatempo, cruciverba, sudoku e affini, tanto per fare alcuni esempi. Noti quotidiani nazionali e celebri riviste specializzate forniscono due versioni delle classiche parole crociate, una più facile, accessibile ai giovani, con una griglia 21 per 12, e una con definizioni più complicate, in una griglia 16 per 12. Creato apposta per i nativi digitali vi è il cruciverba mini, con griglia 8 per 9, ideale per giocare con lo smartphone.
D’estate, infine, non può mancare il sudoku, proposto in due versioni: una più facile e una più difficile.
Insomma, le alternative alla iperconnessione dei giovani ci sono, spetta a noi adulti proporle e sollecitarle. Perché giocare con i nostri figli fa bene anche a noi, ma soprattutto fa bene a loro. Giocare col papà, ad esempio, aiuta il bambino a crescere meglio, è utile ad “allenare” la sua capacità di autocontrollo, che tanto gli servirà da grande. Sotto la lente degli studiosi vi è in particolare il gioco con papà, che rappresenta una importante palestra per l’acquisizione della capacità di autocontrollo. Lo confermano i risultati di una ricerca condotta dagli analisti della università di Cambridge, per i quali più tempo i papà giocano coi ragazzi, meno questi ultimi rischiano di accusare disturbi emotivi e del comportamento. Non solo. Il coinvolgimento del pater familias nei giochi del figlio può aiutare il primo a cogliere i diversi bisogni, le aspettative, gli impulsi che il piccolo immette nelle esperienze ludiche. Tanto più intenso sarà il coinvolgimento emotivo del genitore nel gioco, tanto più importanti saranno i benefici per il piccolo e per il suo rapporto con la famiglia.
Quel gioco che secondo Montaigne va considerato come “l’attività più seria dell’infanzia”. Tutto vero.