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Livatino, l’innocenza della vittima che sentì il bisogno di recuperare il rapporto con il vangelo

Il magistrato agrigentino ucciso dalla mafia, visse la sua professione di giudice consapevole della qualità vocazionale che tale professione ha. E la visse da laico, non da consacrato

Di Massimo Naro |

Il giudice Rosario Livatino, che durante gli anni del pontificato di Papa Francesco è stato riconosciuto martire per la fede (e implicitamente a motivo della giustizia, potremmo precisare con un’espressione proferita da Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993) e come tale dichiarato beato il 9 maggio 2021, visse un’esperienza credente che qualcuno potrebbe reputare paradossale.

Per un verso, infatti, si era progressivamente distaccato – negli anni degli studi superiori e universitari – dalla pratica religiosa, alla quale pure era stato educato nella sua fanciullezza, quando aveva frequentato il catechismo in parrocchia, a Canicattì, in provincia di Agrigento: tale allontanamento spiega il fatto ch’egli abbia ricevuto il sacramento della cresima non da ragazzo ma più avanti negli anni. Per altro verso aveva poi sentito, in misura sempre più crescente, direi anzi urgente e persino incalzante, una forte nostalgia di ciò che in quegli anni della sua primissima adolescenza aveva non tanto appreso ma intuito: e cioè che la nostra esistenza è incardinata nel rapporto con Dio e in un interiore confronto con la vicenda di Gesù. Se la nostra vita si disancora dal rapporto filiale con Dio e dall’amicizia fraterna con Gesù, si svuota di senso e perde il suo significato profondo. Per questo motivo Livatino sentì il bisogno di recuperare il contatto con il vangelo. E negli anni del concorso in magistratura e dell’immissione in ruolo come giudice cominciò a riflettere sul senso della sua vita e a interrogarsi sulle implicazioni vocazionali oltre che professionali del suo lavoro di magistrato.

I suoi diari lo documentano con evidenza. Del resto, come sanno bene i tedeschi già a partire dalla traduzione che Lutero fece della “Lettera ai Romani”, c’è una stretta corrispondenza tra la vocazione (in tedesco: Berufung) e la professione (in tedesco: Beruf). E non a caso chi si consacra nella vita religiosa, emettendo i voti evangelici, fa una “professione”, diventa “professo”.

Livatino visse la sua professione di giudice consapevole della qualità vocazionale che tale professione ha. E la visse da laico, non da consacrato. Ma questa sua condizione laicale e, anzi, questo suo modo laico di vivere la fede, non gli impedì di armonizzare il rigore delle leggi statali con le esigenze – non meno serie e non meno impegnative – del comandamento evangelico, che è fondamentalmente l’amore. Direi, a tal proposito, che seppe coniugare la legge dei codici di diritto con la giustizia divina. Non per niente usava apporre alle sue sentenze, in tribunale, la sigla S.B.T., Sub Tutela Dei, così affidando il suo giudizio umano alla misericordia di Dio, che è la vera e più alta giustizia.

Dichiarandolo beato, la Chiesa cattolica ha riconosciuto questa sua maniera di svolgere la sua professione come un’autentica – ancorché implicita – testimonianza cristiana, intimamente disposta a culminare nella martyría, nel martirio, nella testimonianza suprema.Proprio qui sta la differenza tra un magistrato quale Giovanni Falcone e il “giudice ragazzino”, come sarcasticamente fu definito Livatino. Entrambi furono assassinati dai mafiosi. Eppure Livatino, a differenza di Falcone o Borsellino, non è solitamente ricordato come un eroe civile. Il fatto è che Livatino fu – più precisamente – una vittima, direi quasi estranea alle guerre di mafia, in quelle guerre sanguinose coinvolto suo malgrado, persino quasi a sua insaputa. La frase, che le testimonianze hanno documentato nel processo a carico dei suoi assassini («Ma perché, picciotti? Che male vi ho fatto?»), riecheggia quella di Ponzio Pilato che chiedeva spiegazioni circa il presunto male compiuto dal Maestro di Nazaret condotto in ceppi davanti a lui. E ci riporta in mente la frase rivolta da Gesù stesso a chi, nel sinedrio, lo schiaffeggiava senza che egli avesse detto niente di male («Perché mi percuoti?»), rimanendo in balìa di quella ingiustificata violenza.Proprio in quanto vittima, Livatino rivisse il destino del primo martire, cioè del Crocifisso del Golgota, vittima estranea al peccato degli uomini ancorché a esso sobbarcatasi, vittima innocentissima. Di tale innocenza, della sua forza mite, nel mondo odierno, tutti abbiamo più che mai bisogno, i laici non meno dei credenti, i difensori della legalità per conto dello Stato al pari degli operatori di giustizia secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche, l’irredimibile Sicilia – avrebbe detto Leonardo Sciascia – come tante altre terre irredente.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA