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Il commento

Investire nella scuola, il caso Catania come test

Di Agatino Cariola |

Da più parti si invoca l’educazione come mezzo di rinascita di questo Paese. A Catania, ad esempio, l’arcivescovo Renna ha invitato i devoti di Sant’Agata a mandare i figli a scuola oltre che portarli alla festa; in occasione delle recenti elezioni un documento redatto da intellettuali cattolici e sottoscritto da tanti altri ha posto il problema della povertà educativa. Solo qualche giorno addietro tra la Prefettura e il Comune è stato siglato un apposito patto per una più intensa presenza scolastica nelle aree periferiche della città.  Galli della Loggia sul Corriere della sera ha riflettuto sul rilievo della scuola; a proposito della rinominazione del ministero dell’Istruzione divenuto anche del Merito, è ripresa la discussione sulla funzione della scuola nel nostro Paese. Insomma, il tema dell’educazione sembra divenuto d’attualità. Sono piuttosto scoraggiato sulla tenuta di questa attenzione; penso che si sia arrivati troppo tardi e non si colga l’aspetto essenziale, cioè che bisogna investire sulla scuola (ma non solo) in termini di risorse e di immagine.

Anni addietro si scriveva che le cosiddette agenzie educative erano la famiglia, la Chiesa cattolica e appunto la scuola. La famiglia ha da tempo rinunciato al ruolo educativo. Alla Chiesa, che oltretutto ha gravi problemi al suo interno, è quasi negata la legittimazione ad educare, perché si assume che ciò sarebbe in contrasto con la laicità della società e con l’eguaglianza di tutte le confessioni religiose. Il risultato è un impressionante impoverimento culturale di massa. 

Lo sport – aggiungo – rischia spesso di perdere la dimensione sociale diffusa e divenire solo industria dello spettacolo attorno a divi che vivono una vita diversa dalla nostra.  Il punto essenziale è che la scuola pubblica è stata svilita sotto ogni profilo, a iniziare dalle strutture edilizie tra le più trascurate e dalle esigue risorse finanziarie che vi sono destinate. Soprattutto è stata dequalificata l’immagine dei docenti e della scuola. Nella considerazione sociale che fa del successo e dell’affermazione economica le chiavi del potere la scuola è la cenerentola delle istituzioni pubbliche. I docenti sono sottopagati: ad esempio, un insegnante elementare riceve un quarto dello stipendio riconosciuto a un medico di base, sebbene debba educare e istruire i nostri figli.

Perché la cura dello spirito è considerata meno di quella del corpo? Rispetto ai vari influencer della società dello spettacolo, ma anche del potere politico-amministrativo, agli occhi dei ragazzi il docente appare come uno sfigato nei cui confronti non si nutre rispetto. Anzi, appena un insegnante ricorda a un ragazzo di vestirsi in modo decente o di rispettare gli altri (cose che i genitori non insegnano più), si scatena sui giornali il linciaggio avverso chi ancora si ostina a credere nell’educazione. Docenti demotivati dovrebbero formare ragazzi che non hanno altre fonti di educazione.

Nel libro “Cuore” di Edmondo De Amicis, scritto per un’Italia appena unificata, il protagonista è il maestro elementare che forma i ragazzi di un’Italia che investe sul suo futuro: novello sacerdote, completamente laico, di una religione civile. È banale dirlo, ma abbiamo perso considerazione e rispetto per gli uomini di cultura e per quelli che fanno gli educatori come lavoro. Abbiamo delegittimato la cultura classica per dare spazio a quella scientifica e tecnologica. Se si naviga su Internet si trova che il premio Nobel, Giorgio Parisi, ha recitato in Antigone: segno che si è e si deve essere intellettuali completi prim’ancora di essere scienziati o tecnici. È anche superfluo rilevare che una istruzione solo tecnologica non aiuta a formare cittadini interessati alla politica e capaci quindi di votare in libertà. 

Su tutto questo in Italia non si discute. Gli illuministi credevano alla scuola come motore di riforma e ascensore sociale. Ci si è rassegnati all’esistente e tutti, famiglie comprese, sembrano accettarlo: ad esempio la distinzione che si profila sempre più intensa tra università di serie A, spesso private, ed università di serie B, di frequente pubbliche, non guarda alla qualità dell’insegnamento, ma alle occasioni di incontri professionali che le prime permettono.

Eppure, investire sulla scuola è interesse di tutti: per le famiglie che vedrebbero i figli affermarsi socialmente su basi di vero merito; per la convivenza pubblica che tenderebbe a ripudiare la violenza; per la società politica nella quale si esigono soggetti capaci di decidere in autonomia; per la ricerca che darebbe sostegno all’industria e, quindi, all’economia, giacché un Paese è ricco soprattutto di cervelli.  Ma ciò non si fa mica a costo zero: occorrono risorse. E bisogna anche un cambio di mentalità.   COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA