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L'EDITORIALE

Trent’anni dopo Capaci: la memoria, la retorica e l’impegno quotidiano

Il rischio che le celebrazioni diventino solo una stucchevole passerella è ben presente soprattutto in coloro che a Falcone, Borsellino hanno davvero creduto.

Di Antonello Piraneo |

Trent’anni dopo Capaci non si trova un solo giudice, politico, intellettuale, che non sia stato amico di Giovanni Falcone, nessuno che oggi ripeta quanto diceva fino a poco prima del 23 maggio ’92: Falcone troppo vicino alla politica, fors’anche insabbiatore, Falcone carrierista, e, certo, professionista dell’antimafia. Così il rischio che la memoria di Giovanni Falcone e con lui di Paolo Borsellino – uniti nella vita e nella morte – di Francesca Morvillo e degli uomini delle scorte, diventi soltanto un vuoto esercizio di retorica se non addirittura una stucchevole passerella, è ben presente soprattutto in coloro che a Falcone, Borsellino, alla loro azione per la Giustizia giusta prim’ancora che antimafiosa, hanno davvero creduto.

Per questo fare memoria delle 17,58 di sabato 23 maggio 1992 si traduce  nell’impegno  quotidiano nell’affermazione della legalità, nella disarticolazione della mafiosità di pensiero pericolosa almeno quanto l’agire mafioso: non sparo, non uccido, non taglieggio, ma accetto la prepotenza, la convenienza, l’obliquità necessitata come stile di vita. Un impegno che per non ridursi a pura testimonianza deve essere concreto. 

Trent’anni dopo Capaci è cresciuta un’altra Sicilia. Le generazioni post 1992 hanno potuto parlare di mafia in tutti luoghi, non soltanto nelle chiese consacrate dell’antimafia militante e autoproclamatasi tale. I nostri figli hanno incontrato e incontrano nelle scuole prefetti, magistrati, forze  dell'ordine,  vittime di mafia e associazioni presenti nella trincee dei quartieri dimenticati. Prima non accadeva in maniera così  diffusa, “normale”. Eppure non eravamo innocenti, l’innocenza l’avevamo perduta  – complice uno  Stato  quantomeno distratto – ogni  qual volta pensavamo che la mafia non ci riguardasse e al più fosse una questione tra un giudice e Cosa Nostra, un prefetto e alcuni capimafia, un giornalista coraggioso e quegli altri. Per questo la rivoluzione delle lenzuola bianche fu la migliore risposta che si potesse dare. Ai boss ha fatto male quanto il carcere duro e non appaia una provocazione: è questa presa di coscienza collettiva che fin qui ha frenato ogni ipotesi di allentamento delle leggi in materia di contrasto alle mafie. 

Trent’anni dopo Capaci ai ragazzi – tra i quali  la mafia è «di moda», ci avvisa un sondaggio raggelante – va detto  che il mafioso non è mai un misconosciuto  Robin Hood e neanche quella sorta di superuomo delle serie tv, ma  più banalmente un uomo infelice, un perdente che vive male, senza affetti e spesso è destinato a morire in carcere, una volta catturato.

Trent’anni dopo Capaci l’Italia ha la forza di spingere un boss detenuto al 41 bis a chiedere a un giudice di pensare lui ai suoi figli, per dar loro un altro tipo di vita. Proprio per questo ci si deve ricordare che senza lavoro vero un giovane rischia infine di bussare alla mafia Spa. 

Questo giornale lo scriveva anche prima della stagione stragista: in Sicilia serve un esercito di buste paga più che un corpo militare. Un appello che valeva ieri e vale oggi, trent’anni dopo Capaci.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA