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Dove osano le aquile, anzi più in alto

Di Redazione |

Questa non è la storia di un “Top Gun” all’italiana, né di un supereroe che, una volta indossata la sua tuta d’ordinanza, vola per sconfiggere il Male. Questa è la storia di un ragazzo normalissimo, di una famiglia normalissima, con un sogno normalissimo: volare sulle ali di un… “Pony”. E “Pony” è il nome che i piloti delle Frecce Tricolori o, per meglio dire, della Pan, la Pattuglia acrobatica nazionale, danno al loro Aermacchi MB-339 PAN, uno di quegli aeroplani che, tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo ammirato mentre, stagliandosi nell’azzurro del cielo, lasciava quella scia tricolore che, in tutto il mondo, strappa applausi a grandi e piccini.

Jan Slangen, romano di padre olandese, laureato in Scienze Aeronautiche e Management and Business Communication, pilota di AMX del 13º Gruppo Caccia, nel 2004 è stato assegnato al 313º Gruppo Addestramento Acrobatico – Frecce Tricolori – di cui è stato comandante dal 2012 al 2016. Dopo 3500 ore di volo all’attivo, ha deciso di raccontare la sua storia in un libro edito da La Nave di Teseo: “Volare alto – Appunti sulla felicità di un pilota delle Frecce Tricolori”. Non un libro sulla Pattuglia acrobatica nazionale né un diario di volo. Più semplicemente, la storia di come un ragazzo “semplice” come tanti altri, abituato ad una educazione rigorosa, riesca nell’impresa di dedicare la propria vita ad un mestiere davvero speciale. Con la testa tra le nuvole e i piedi sempre ben piantati per terra.

Comandante Slangen, la storia della sua passione per il volo comincia da un episodio tragico, l’incidente nel cielo di Ramstein dell’agosto 1988: settanta morti (tre piloti e 67 spettatori) e 350 feriti. E’ come se Vettel raccontasse di essersi appassionato alla Formula 1 e alla Ferrari dopo aver visto le immagini del tremendo incidente che costò la vita a Gilles Villeneuve…

«Sì, è vero. Un’immagine negativa anche se intendo dire che da quella tragedia si sviluppa un momento di grande dimostrazione di amore, da parte della gente, verso le Frecce Tricolori. Se dopo Ramstein non ci fosse stato quel calore dei tanti appassionati che decisero di sostenerci e di unirsi in associazioni che oggi sono i Club Frecce Tricolori (oltre 130 in tutto il mondo), oggi probabilmente non saremmo qui a parlare di tutto questo».

E sarebbe stato davvero un peccato visto che anche lei, nel suo libro, sottolinea come le Frecce Tricolori abbiano una “marcia in più” rispetto alle squadre acrobatiche degli altri Paesi, pensiamo alla Patrouille de France, le Red Arrows della Royal Air Force o gli statunitensi Blues Angels.

«Quando parlo dell’importanza di avere in squadra un aereo in più rispetto agli altri, intendo dire che non è il numero che fa la differenza, ma il grado di difficoltà tecnica delle figure che si affrontano. Andare in 10 anziché in 9 fa una certa differenza. Ma la vera forza delle Frecce Tricolori è ben altra, è nella squadra a terra, forte perché c’è la consapevolezza di quel che si sta affrontando. Ed è questo che cerco di trasmettere al lettore».

Un vero e proprio marchio di fabbrica.

«Chi è un intenditore di volo può notare nelle nostre esibizioni una creatività e un estro che sono caratteristica esclusiva degli italiani. Penso ai francesi o agli inglesi, le cui figure sono tecnicamente molto valide ma che non trasmettono quel calore mediterraneo che è solamente nostro».

Tempo fa, intervistando a Comiso il maggiore pilota Mirco Caffelli, che di lì a poco avrebbe preso il suo posto al comando della Pattuglia, mi colpì il fatto che le figure le studiate a tavolino, con carta e matita, mentre sembrerebbe più logico immaginare dei tecnici, dei veri e propri “cervelloni” che lavorano al computer.

«Tutto quello che facciamo in volo viene prima messo su carta. Questo metodo ti permette di andare al di là di quel che raccontano i manuali. La conoscenza tecnica della macchina diventa tale che il manuale risulta quasi limitativo. Impariamo a lavorare al limite delle prestazioni. Sono delle intuizioni che prima sono sulla carta e poi vengono provate in volo».

Il musicista canta davanti a folle oceaniche ma, spesso, per un gioco delle luci, non vede chi ha di fronte. Voi, che percezione avete del pubblico che vi ammira con il naso all’insù?

«In realtà, quando voliamo c’è una forma di isolamento, anche se è possibile percepire la moltitudine delle persone che stanno lì sotto. Ho partecipato a manifestazioni molto affollate come è accaduto in Russia dove, a terra, si stimava la presenza di mezzo milione di persone, una folla sconfinata. Però, c’è questa forma di distanza legata alla mancanza del contatto diretto. Il musicista è comunque più vicino al suo pubblico. La nostra vicinanza appare con tutta la sua forza una volta che termina l’esibizione quando, rientrando al parcheggio, vedi tutte quelle mani alzate, e una volta che apri il tettuccio senti quell’applauso fragoroso che ti fa entrare in contatto con la gente. Le emozioni più forti le ho provate guardando dritto negli occhi delle persone, cogliendo quell’emozione genuina e disarmante. Ed è quella forza che ti fa capire, innanzitutto, quanto è speciale quello che fai. Per portare avanti questo tipo di lavoro devi addestrarti tantissimo, arrivi a volare anche due o tre volte al giorno. Spesso è faticoso, ma poi ti rendi conto delle emozioni che dai quanto tocchi il cuore della gente. Senti questa forza che deriva non tanto dalla tua prestazione ma dall’aver prestato il tuo operato a quel simbolo che è il più grande e appartiene a tutti noi, un’emozione che colpisce anche il pilota come parte di un sistema, di una squadra. Ed è qualcosa di unico».

Tutto questo a scapito della famiglia. E’ forse per questo che ha voluto dedicare il libro a sua moglie Caterina?

«E’ un lavoro totalizzante. Ne parlo perché, ovviamente, cerco di spiegare quanto una passione possa prenderti così tanto. Al di là del fatto che per cinque mesi all’anno passi più tempo con i colleghi che con le rispettive famiglie, è un immergersi dentro alla nostra professione a tal punto che si corre il pericolo di trascurare gli affetti e di coinvolgere allo stesso tempo i propri cari. Fa parte del mestiere e non potrebbe essere diversamente».

Si dice che dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna…

«All’amore che unisce me e mia moglie si aggiunge questo senso di riconoscenza, perché Caterina mi è sempre stata vicina e mi ha sostenuto in questo percorso molto lungo, faticoso, ricco di tante soddisfazioni. Non è sempre facile, a maggior ragione quando sono diventato il comandante. Ho gestito la squadra per 4 anni e quello è un momento molto delicato. E’ come se il giorno prima fai parte della squadra e il giorno dopo varchi quella linea immaginaria e diventi tu il responsabile di tutto. E cambia un po’ anche il modo in cui gli altri si pongono nei tuoi confronti. La bravura di un capo deve essere quella di non perdere mai il contatto con le persone che ti stanno sotto. E per farlo devi mantenere il feeling e quel sentimento di sottofondo cercando di filtrare le problematiche. Per performare a quei livelli bisogna essere in completa spensieratezza. Questa è la parte non facile. Nel libro parlo dei miei comandanti e racconto di un caso avvenuto in Libia, significativo di come, in quell’occasione, io non non abbia percepito tutti i riflessi e il peso di quello che stava accadendo. Ed è stato possibile proprio per la capacità del comandante di allora di gestire la situazione lasciando la squadra molto serena».

Lei parla di “piccoli anticipi di eternità”. Lasciate le Frecce Tricolori ha deciso di continuare a volare da civile. Non le sono bastati quei “piccoli anticipi”?

«La forza che ti spinge a volare è talmente forte che, una volta terminata la carriera militare, non me la sono sentita di rimanere fermo a terra. Certo, adesso è un volo diverso. Per me volare significa anzitutto assaporare le cose che ti circondano, osservare il mondo stesso da una prospettiva diversa e, se vogliamo, più vera. E’ come se fossimo abituati a vedere le cose che ci circondano in un certo modo e, poi, ti ritrovi all’improvviso a vederle dall’alto, da una diversa profondità. Poi, tornando a terra, ti rendi conto che tutto quello che stai vedendo è distorto. E lì ti prende il desiderio di tornare perché ti accorgi che quella è la tua dimensione reale. Mi piace vedere il volo come una metafora della vita, al di là delle persone che veramente si avvicinano al volo fisicamente, si può volare in altri campi ma per farlo servono quelle dinamiche che io ho vissuto. Intanto, la serenità con se stessi, la consapevolezza di quello che ci piace e lo forza che ci richiede, la condivisione di questa bellezze, instaurare un clima virtuoso. Questo è l’aspetto che mi è più mancato. Non è tanto il volo ma il clima della squadra, il conoscere le persone così bene da avere un rapporto autentico. Non tutti, ovviamente, la pensiamo allo stesso modo, ma l’importante è interagire, trovarsi a discutere riuscendo sempre a capire veramente cosa poteva essere migliorato e lavorare in volo affidando all’altro la propria vita. E’ qualcosa di straordinario».

Da appassionato di subacquea, capisco perfettamente quanto sia importante, fondamentale, trovarsi al fianco la persona giusta a cui affidi la tua vita. Lì sotto sei tu con la tua preparazione e il compagno a cui ti affidi ciecamente…

«Il paragone calza a pennello. Sostanzialmente stiamo affidando ad un’altra persona la cosa più bella e importante che abbiamo: la vita. Il punto è come e perché arriviamo a farlo e come mai nascono queste dinamiche? C’è quella fiducia che hai a priori, e che nel tempo viene confermata. Tutto questo ti insegna a vivere meglio insieme agli altri».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA