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Robert Plant: il Dirigibile del rock vola basso nei cieli sterminati della musica

Di Redazione |

Quando il chitarrista barbalunga Liam “Skin” Tyson scatena il celeberrimo riff di Whola lotta love, il Teatro Antico esplode. Sul palco, Robert Plant sorride. Quella reazione del pubblico per quel brano accade ogni sera, a ogni concerto, e lui – l’ex Led Zeppelin – lo sa bene. Come è consapevole che quel passato non può più tornare. Così quel classico del rock’n’roll viene imbevuto di blues, mescolato a I just want to make love to you ed Hey, Bo Diddley. D’altro canto, non si può chiedere a una leggenda rock di fermare il tempo, né di essere disponibile a ripetersi in eterno. Non si può chiedere a Robert Plant – 68 anni il 20 agosto – di avere la stessa voce imbattibile dell’era Led Zeppelin (anche se per preservarla, tra una canzone e l’altra, beve tè con miele, limone e zenzero) o che si diverta in eterno a girare il mondo davanti a platee che delle sue nuove canzoni non sanno che farsene e non vedono l’ora di tornare indietro nel tempo sulle note di Stairway to heaven, desiderio destinato a non essere esaudito. Ma non si può chiedere nemmeno al rock di rinnegare se stesso, diventando saggezza invernale invece che eruzione primaverile, routine moderata invece che spudorata ed esagerata creatività.

Domenica sera al Teatro Antico di Taormina, pieno oltre il “tutto esaurito”, il rito si ripete invariato. L’uomo di West Bromwich accetta di ripercorrere le strade della sua ex band, ma non troppo: in testa, in coda, a metà di ogni cavallo di battaglia dell’ex gruppo c’è sempre un’altra melodia, un sapore world music, qualche verso in meno o in più a rendere impossibile il paragone tout court con quello che fu. E, poi, come fai a paragonare il pur volenteroso apporto dei Sensational Space Shifters con la chitarra assassina di Jimmy Page e l’imbattibile motore ritmico di Bonham e Jones? Al pubblico di Taormina – proveniente da tutto il mondo – la ricetta piace comunque, poco importa se mancano i pezzi agognati e l’esibizione dura appena un’ora e venti minuti. Al suono di Black dog, What is and what should never be, Dazed and confused e Rock’n’roll è difficile resistere, anche se l’ugola di Robert Plant si limita ormai al minimo sforzo contrattuale, senza gemiti, strappi ed acuti. L’hard rock è diventato classic rock, è educato più che “duro”.

I pezzi della carriera solista (Rainbow, All the king’s horses) non riscaldano eccessivamente la platea, così il vocalist con il tamburello riparte esattamente dall’inizio della mitologia dei Led Zeppelin: in principio era il blues, e blues è l’iniziale Poor Howard di Leadbelly introdotta dal banjo, blues è No place to go di Howlin’ Wolf, blues è Fixin’ to die di Bukka White, sette minuti di grande godimento con Gibson massacrate per estirparne l’anima. Il Dirigibile del rock viene dirottato su altri cieli. D’Irlanda, del Delta del Mississippi, dei monti Appalachi , della Louisiana, del Gambia, di deserti mediorientali, Spagna, perfino Napoli. Plant aggiunge afrori e acidità folk, affidati soprattutto alle percussioni e al goje (il violino africano di Julden Camara, dal Gambia), ma anche a un mandolino, a un banjo. Una ballata come Baby I’m gonna leave you ospita l’omaggio alla melodia partenopea, e a re Elvis, di Surrender/Torna a Surriento. Il canto rurale di Bluebirds over the mountain precede, e forse contraddice, quella che dovrebbe essere l’apoteosi di Rock and roll.

L’effetto nostalgia è evitato, ma il leone non ruggisce più, appare stanco e un po’ svogliato e il Dirigibile vola basso e con il pilota automatico.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA