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L'anniversario

Concordia, 10 anni fa il disastro italiano

Sciatteria, sottovalutazioni e sconosciuti diventati eroi 

Di Redazione |

Dalle finestre della casa color ocra a cento passi dal porto del Giglio dove abita Mamiliana Rossi, la donna alla quale era dedicato l'inchino, gli scogli delle Scole sembra quasi di riuscire a toccarli, tanto sono vicini. Antonello Tievoli, il maitre della Costa Concordia, l’aveva chiamata poco prima del disastro: "mamma, stasera passo». E lei al processo l’aveva raccontato: "La mia finestra rimane un po' nascosta e non vedevo subito la nave ma la sera del naufragio vidi le luci che si spensero, una cosa diversa dal solito». A volerla guardare bene, dieci anni dopo, quella della Costa Concordia è una storia molto italiana e senza misteri: una nave di 290 metri di lunghezza con 4.229 persone a bordo – 32 delle quali mai più tornate a casa – finisce su uno scoglio ad uno sputo dall’isola per una serie di incredibili sottovalutazioni e sciatterie. Ma è anche la storia di perfetti sconosciuti che senza pensare alle conseguenze delle scelte fatte quella notte misero a rischio la loro vita per salvarne anche solo un’altra. E ci riuscirono.   Mario Pellegrini era il vicesindaco del Giglio, fu il primo a salire sulla nave: aiutò ad evacuare centinaia di persone, una decina le strappò ai pozzi neri che erano diventati i corridoi. "Ripensando in questi anni a quei momenti, se avessi fatto tutto quello che potevo, alla fine mi sono detto che sì, non potevo fare di più», dice con indosso lo stesso giubbetto di dieci anni fa. Mario ricorda tutto. «Le scarpe. Erano centinaia, fluttuavano nell’acqua. Le mani segate dalle corde. La paura negli sguardi vuoti dei passeggeri. Il terrore nei volti dei bambini indifesi». E il rumore dell’acqua che entrava. «Come un fiume che sta arrivando ma è lontano, non lo vedi ma sai che c'è». Hai mai pensato di morire? «Quando la nave si è ribaltata e le luci si sono spente ho avuto paura, sì. Mi sono detto 'Mario tieniti e aspetta che passi l’acqua, poi nuota e spera'." Ennio Aquilino è un altro degli sconosciuti. Era il capo dei vigili del fuoco di Grosseto, fu tra i primi a salire sulla Concordia. «Quando l’ho vista non potevo crederci. Mi sono detto 'e ora che facciamo?' Cercavamo la linea di comando, ma non c'era, era saltato tutto». I pompieri sapevano che la nave sarebbe potuta andare a fondo. «Quello che faceva paura è che non c'era un piano B, saremmo andati giù con lei. Non avremmo potuto far nulla, salendo avevamo sposato la sorte di chi era là sopra. Ripensandoci dopo, la sensazione era come quella che devono aver provato i pompieri entrati nelle Torri gemelle. A noi è andata meglio».   Il simbolo negativo di questa storia non può che essere Francesco Schettino, il comandante che sta scontando una condanna a 16 anni. L’inchino fu opera sua così come furono suoi i ritardi nel dare l’abbandono nave, un’ora e 9 minuti dopo l'impatto. Ma è stato chiaro fin da subito che Schettino fosse il colpevole perfetto, anche per via del suo atteggiamento, a partire dalla scusa con cui sostenne di non aver abbandonato la nave: «sono scivolato su una scialuppa». E poi la lezione alla Sapienza, saltata, sulla gestione del panico e il white party ad Ischia dove venne fotografato abbronzatissimo mentre centinaia di persone lavoravano al Giglio per riparare ai suoi danni. Schettino però non è l’unico colpevole. Perché l’inchino non l'ha inventato lui e perché altri ufficiali e membri della Costa hanno patteggiato le pene ammettendo le loro responsabilità. Tra loro il capo dell’unità di crisi a Genova Roberto Ferrarini, con il quale Schettino parlò più volte dopo lo schianto, e il timoniere Jacob Rusli Bin: non capì gli ordini, girò a sinistra invece che a destra. Nella Costa c'è però anche chi il suo dovere l’ha fatto. E anzi ha fatto di più. Come Sandro Cinquini e Simone Canessa, medico di bordo e cartografo. «Canessa non voleva abbandonare la nave – racconta Pellegrini – Diceva 'io sono l’ufficiale più alto in grado a bordo, devo stare qui'. Era quasi in ipotermia, sono riusciti a convincerlo alle 5 del mattino ma hanno dovuto faticare».   La storia della Concordia è anche quella del riscatto di un Paese che riuscì nell’impresa folle di riportare in asse la nave, prima, e di portarla via sconfiggendo invidie e burocrazie, dopo. Il volto è quello del sudafricano Nick Sloane ma l’impresa l’hanno fatta gli italiani Sergio Girotto, ingegnere della Micoperi, e Franco Porcellacchia, della Costa; le aziende che hanno lavorato al progetto, la Tecon di Assago, la Spline di Venezia, la Ceccarelli Yacht design di Ravenna. E l'ha fatta il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Franco Gabrielli, che allora era Commissario per l’emergenza, riuscendo a far funzionare pubblico e privato insieme, resistendo a pressioni e veti.   Il Giglio che attende le celebrazioni per l’anniversario è come era nel gennaio del 2012: deserto. Chiusi i negozi, chiusi gli alberghi, il molo sferzato dal vento. Arriveranno autorità e naufraghi, tornerà Kevin Rebello, il fratello di Russel, il cameriere indiano che fu l’ultima vittima ad essere restituita, mille giorni dopo il naufragio. «Sono dieci anni volati via ma a me sembra ieri che sono arrivato sul molo». Questo ragazzo non ha mai fatto polemiche, mai accusato nessuno. «Ho cercato sempre di essere neutrale, di non giudicare, non sono e non ero in grado di farlo, spetta ad altri». Dieci anni dopo, però, una cosa Kevin la dice. «Tutto questo dolore poteva essere evitato se non ci fosse stato l’inchino. Senza quello, io e te non saremmo qui a parlare». Non saremmo qui a parlare di una nave che naufragò per salutare Mamiliana.   

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