A Centuripe c'è un deserto che fiorisce grazie ai "semi" della legalità
La Panchina gigante sui Calanchi del Cannizzola e l'iniziativa "Adotta un ulivo" le iniziative di Francesco Capizzi per non abbandonare il territorio e presidiarlo con la cultura dell'ambiente contro la mafia dei pascoli
Francesco Capizzi sulla panchina gigante che guarda i Calanchi del Cannizzola - Centuripe
C’è un fiume che scorre nel “deserto” di Sicilia, ma non è fatto d’acqua. È fatto di idee, di autenticità, di speranza. Soprattutto della consapevole “testardaggine” di Francesco Capizzi, 37 anni di Biancavilla, che ha trasformato il mestiere dell’agricoltore in impegno sociale, la fatica della zappa in impresa sociale, l’abbandono delle campagne in opportunità per un turismo a dimensione umana.
È lui l’uomo della Panchina Gigante sui Calanchi del Cannizzola, in territorio di Centuripe, una “trovata” divenuta ormai un’attrazione per motociclisti, escursionisti, famiglie che s’inerpicano fin qui, un paesaggio “western” fra la valle del Simeto e i monti Erei, per ammirare i Calanchi del Cannizzola e riconnettersi con una Sicilia fuori dagli schemi, arida e verdissima, a seconda delle stagioni.
Ma soprattutto Francesco Capizzi s’è inventato un futuro diverso per questo territorio nel quale, uno ad uno, i terreni sono stati abbandonati per diventare preda della mafia dei pascoli.
Di qui l’idea della panchina gigante…
«Il progetto è nato perché nel 2017 bruciarono il rudere nel quale avevo raccolto le lumache frutto di un mio piccolo allevamento. Il fuoco distrusse tutto, tagliarono i tubi dell’acqua, gli alberi intorno e mi fecero trovare al loro posto delle croci di legno. Da lì ho capito che il problema era talmente grande che da solo non avrei potuto risolverlo. Ho fatto la prima denuncia pubblica, cui seguirono delle altre, non mi sono mai tirato indietro, ma non riuscivo a trovare una soluzione, finché nel 2017 vidi in tv il programma “Generazione Bellezza” in cui si parlava di queste panchine giganti. Lì mi sono detto “questo è il progetto per me”. E adesso la panchina sui Calanchi del Cannizzola è fra le 400 panchine catalogate fra le più suggestive per storia e contesto ambientale».
Quante persone arrivano ogni giorno?
«In media 50/60, in tutte le stagioni. In estate con 40 gradi vengono di notte a fare le escursioni con le torce. Abbiamo creato un piccolo gazebo per i pic nic e c’è anche chi festeggia qui i compleanni…».
E il progetto “Adotta un ulivo”?
«È nato un anno fa come presidio del territorio. Le persone non bastano. Le terre “vuote” diventano preda di personaggi senza scrupoli. Noi abbiamo l’unico agrumeto che resiste sui Calanchi del Cannizzola e dobbiamo continuare a piantare alberi affinché questi territori mantengano la loro originalità. Duemila anni fa qui intorno era tutto bosco, adesso è diventato come sabbia del mare a causa dei cambiamenti climatici. Il disboscamento e l’abbandono delle campagne hanno fatto il resto, quindi ripiantare ulivi per noi è stato quasi una necessità. Più alberi ci sono, più il territorio è “tutelato” sotto tutti i punti di vista. Non abbiamo cancelli nella nostra proprietà e dobbiamo fare i conti con i danni causati dagli animali lasciati volutamente liberi di distruggere le coltivazioni. Più alberi piantiamo, più strumenti avremo per denunciare un danno. Contemporaneamente con il progetto “Adotta un ulivo” diamo al visitatore la possibilità di chiamare una nuova pianta con il suo nome. Lo stesso anno dell’adozione gli invieremo l’olio prodotto dagli ulivi già in produzione in attesa che dopo 4-5 anni andrà in fruttificazione proprio la pianta adottata. In più contribuiamo ad abbassare i livelli di CO2».
Quanti ne avete già “adottati” e quanto costa?
«Ad oggi sono stati adottati 150 alberi, adottare un ulivo costa 60 euro e nel prezzo è compreso l’acquisto dell’albero, la piantumazione, la manutenzione della pianta, la raccolta delle olive, la molitura l’imbottigliamento, la spedizione delle bottiglie…».
Da agricoltore a “imprenditore” ecoturistico, la sostenibilità economica è garantita?
«Non ancora. Una partita Iva non può vivere solo di agricoltura. Io e mio padre lavoriamo nell’edilizia per affrontare spese commerciali e legali. Abbiamo irrigato per far resistere le piante sia in estate che inverno, la spesa di luce e acqua nell’ultimo anno è stata doppia, circa 10mila euro. Se le arance ce le pagano a 35 centesimi al chilo dove dobbiamo andare? Il giusto prezzo per noi agricoltori sarebbe un vero passo concreto, altro che difesa del Made in Italy a parole…».
Quante volte le hanno detto “Chi te lo fa fare?”
«Un sacco di volte. Ma qui ci sono nato, ci vengo da quando avevo sei anni e mio padre mi portava con lui. Da piccolo con i miei amici giocavo sui Calanchi e nemmeno sapevo cosa fossero… Quando sentivo dire ad altri “Non abbandonerò mai la mia terra”, non ci credevo. L’ho capito con l’installazione della panchina, ho capito il potenziale di questo territorio, nonostante siamo stati e siamo circondati dalla mafia dei pascoli, persone ritenute “non pericolose” che tuttora continuano ad operare forti del fatto che la legge è quella che è e non rischiano niente».
Sostegno da parte delle Istituzioni pubbliche?
«Le istituzioni non hanno ancora capito che qui non bisogna perdere un attimo di tempo, ogni ritardo è spazio regalato alla mafia dei pascoli. Ho dovuto accelerare i miei progetti e oggi a sostenere questo territorio non sono tanto io quanto la comunità di visitatori che con la loro presenza ci sostiene».
Il turismo come presidio di legalità?
«Esatto. Le guide ci hanno supportato da subito affinché queste terre venissero giornalmente presidiate. Uno dei “pilastri” è stato l’escursionismo lento, ma non basta, bisogna ancora aggregare con gruppi di motociclisti, cicloturisti, escursionisti, ragazzi diversamente abili… È questo il nostro “concime”, sono loro il nostro presidio di cultura e legalità».
Come si vede fra 10 anni?
«Come un punto di riferimento per i giovani e per i turisti. Mi piacerebbe che dei veri investitori iniziassero a credere in una Sicilia in cui si possa creare qualcosa di buono. Io questa speranza continuo a coltivarla».
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