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«Fotografo la Sicilia decadente per conservarne la bellezza»

Carmen Greco

19 Aprile 2021, 16:29

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«Fotografo la Sicilia decadente per conservarne la bellezza»

CATANIA - In punta di piedi nelle vite degli altri. Per fermare la memoria dei luoghi, per “salvare” la memoria di luoghi abbandonati, anzi per testimoniare la loro decadenza.


«Ho sempre avuto la passione per intrufolarmi in posti sconosciuti sin da quando ero bambino - ricorda Carlo Arancio, studente d’Architettura -. La prima volta che entrai in una dimora nobiliare in abbandono avevo 16 anni, e tanta è stata l’emozione che negli anni ci tornavo spesso, per rendermi rendermi conto che ogni volta era sempre peggio. Le 30 stanze iniziali cominciavano ad essere sempre di meno a causa dei crolli, così mi sono detto che dovevo fotografarle, prima che non ne rimanesse più nulla».


È nato così - sette anni fa - il progetto “Sicily in decay”, un viaggio fra case, ville e dimore di campagna siciliane disabitate, tappe di un percorso fotografico maturato nel tempo.
«All’inizio fotografavo con il cellulare, poi sono passato alla reflex, ma in realtà non avevo un progetto strutturato in mente, mi spingeva solo l’idea di dare giustizia alla memoria di questi luoghi».


Un fascino nato dagli studi di architettura?
«Ho scoperto tardi di non voler fare l’architetto, non mi interessa progettare il nuovo, casomai recuperare quello che c’è. Ho un approccio all’architettura molto più emotivo che tecnico. A volte, quando vedo un edificio restaurato da un lato sono contento perché riprende a vivere, dall’altro no perché si cancellano le tracce del tempo che a me piacciono tantissimo».

Quindi è il fascino della decadenza?
«Sì. Mi piace tutto ciò che esprime una storia e nell’architettura è molto facile leggerla. Si vedono stratificazioni, interventi successivi, forme o elementi collocati nel tempo...».

Un architetto-archeologo...
«Volendo, sì. Sì può dire così, ma se sta pensando all’archeologia industriale no. Le fabbriche non mi interessano molto, non sono nelle mie corde, quello che mi piace raccontare è un modo di vivere e una cultura, quella siciliana di un tempo, che non esiste più. Chi è che dormirebbe oggi in un’alcova? Nessuno, solo il barone di 150 anni fa lo faceva».

Quindi la foto “congela” quel tempo, senza voler essere un invito al recupero di questi luoghi...
«Dipende, ciascun luogo ha la sua “personalità”. Per certi luoghi me lo auguro, per altri mi viene difficile immaginarlo. Un palazzo in stile liberty abbandonato, in centro città, ha molte più possibilità di riprendere vita piuttosto che una villa nello stesso stile perduta nelle campagne senza nemmeno una strada carrabile, in questo caso è un’architettura ormai “morta” e per me quando l’architettura muore diventa un monumento a se stessa non ha più bisogno di una funzione, resta solo la bellezza che diventerà un tutt’uno con la natura ed questo quello che cerco per lo più».

I blitz fotografici dentro queste case sono sempre “tranquilli”?
«Mi sono capitate cose belle e brutte, comunque io sono molto attento. Se entro, lo faccio perché è facile farlo. Sia chiaro che si tratta di una pratica illegale, l’abbandono non esiste, un proprietario c’è sempre, anche quando le porte sono totalmente aperte, non ci sono recinzioni, i rampicanti crescono dentro e i piccioni fanno festa nei saloni. Io entro ma non “invado” questi luoghi, raramente porto con me uno zaino, solo treppiedi e macchina fotografica, così chi mi vede sa che non sono lì per rubare, “rubo” solo immagini. Qualche custode rude mi ha cacciato in malo modo, ma in genere, lasciano fare. C’è anche una componente di vergogna, a volte il proprietario non ti fa entrare perché non ci tiene a mostrare le condizioni in cui tiene l’immobile, non è un vanto. Anche per questo non dico mai dove si trovano i posti che fotografo, non mi piace mettere in cattiva luce le persone e vorrei evitare che altri vadano lì con altri intenti».

Un luogo del cuore?
«Una villa padronale che malgrado non abbia una storia di nobiltà, nei decori mostra uno sfarzo, un virtuosismo e quasi un’aggressività dei colori che solo noi siciliani possiamo inventare. Lì dentro l’architettura e le pitture mi parlano. Oppure la casa terrana di una famiglia con ancora tutti i mobili, gli oggetti, i vestiti, i libri. Lì parla la microstoria. È il vissuto di un’altra epoca che ti investe anche attraverso l’intimità degli oggetti, una vecchia tessera della Dc, un calendario appeso, un pianoforte con gli spartiti, una bandierina sabauda, ti colloca non solo nel tempo ma anche nell’ambito di un ceto».

Che futuro avranno queste foto?
«Mi piacerebbe farne una mostra e dei libri per raccontare questa Sicilia che sta sparendo piano piano, non solo ai siciliani ma anche all’estero dove seduce molto più che qui da noi. Sono in cerca di un editore».

c.greco@lasicilia.it