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La rivoluzione zoppa di Crocetta

La rivoluzione zoppa di Crocetta

Di Giuseppe Di Fazio |

La rivoluzione più volte sbandierata da Crocetta ha i piedi d’argilla. Il governatore ne fa un elogio circostanziato: essa «è cominciata con le rotazioni, con la riduzione dei compensi, con il principio della responsabilizzazione dei burocrati, con i tagli agli sprechi… ». Sembra di essere in un altro mondo, perché se scendiamo sul terreno concreto ci accorgiamo che la cosiddetta rivoluzione crocettiana frana nel campo apparentemente più semplice: l’ordinaria amministrazione. La debolezza dell’attuale governo regionale sta nella incapacità di accompagnare i grandi proclami con atti che consentano almeno una decente normalità. Ci ritroviamo ogni giorno a dover lottare non solo contro il grande mostro della piovra, ma anche contro il mostro della inefficienza dei servizi e della cattiva burocrazia. Alcuni grandi ospedali dell’Isola da un anno senza manager, e quindi senza strutture dirigenziali capaci di governare la vita degli enti, costituiscono un danno incalcolabile per la collettività. Così come diventa una barzelletta il fatto che possano esistere Comuni (vedi il caso Centuripe) dove devono trascorrere 40 giorni dalle dimissioni di sindaco, giunta e consiglio comunale, prima che la Regione riesca a nominare un commissario. E che dire del caso della Cattedrale di Agrigento chiusa da tre anni in attesa di riscontri tecnici e dei lavori di consolidamento statico, o del bilancio regionale che, alla data del 10 settembre, per gran parte rimane bloccato dall’impugnativa del commissario dello Stato? Quando Biagio Conte compie il gesto simbolico di restituire alla Regione e al Comune le chiavi dei capannoni in cui ospita centinaia di senzatetto e migranti per manifesta ostilità della burocrazia e della politica esprime un sentimento che cova in moltissimi siciliani. I tempi della politica non sono in linea con la vita della società. Ma quando questa distanza procura danni gravi, e a volte irreparabili, a intere comunità sarebbe bene che qualcuno cominciasse a pagare per le omissioni o le distrazioni. Abbiamo citato casi di questi giorni che chiamano in causa la Giunta Crocetta, ma questo problema della rivoluzione siciliana come questione anzitutto della buona gestione dell’ordinario è antico. Per questo non farebbe male ai nostri politici rileggersi i testi di due grandi maestri del buon governo: Luigi Sturzo e Piersanti Mattarella. Il fondatore del Ppi, dal suo ritorno in Italia (1946) alla morte (1959) intrattenne con i leader della politica dc in Sicilia una fittissima corrispondenza (consultabile nei due volumi curati da Vittorio De Marco per il Centro studi Cammarata e pubblicati col titolo: L. Sturzo, Carteggi siciliani del secondo Dopoguerra). Nelle sue missive a Giuseppe Alessi, Franco Restivo e Giuseppe La Loggia, don Sturzo non si stanca di guidare i suoi discepoli nella corretta attuazione dell’Autonomia speciale e nella creazione di un buon governo. Egli chiede «una maggiore attenzione alla fattibilità dei progetti e una semplificazione della vita amministrativa». A proposito dello scandalo delle partecipate regionali di questi giorni, occorrerebbe rileggere una lettera a Giuseppe La Loggia del 14 dicembre 1948: «Non è affatto necessario, né secondo me desiderabile – scrive il sacerdote di Caltagirone – che la Regione rifaccia in piccolo tutti gli organismi statali; anzi, dovrebbe dare l’esempio di semplificazione, snellezza e praticità. Ripetere poi gli errori del fascismo moltiplicatore di enti è uno sbaglio grossolano che si sconta». Ai tempi di Sturzo non c’erano ancora i problemi legati all’erogazione dei Fondi Ue, ma c’era qualcosa di analogo: gli aiuti del Piano Marshall. Anche in questo caso, Sturzo mette in guardia i politici siciliani, invitandoli a non cadere nella superficialità: «Occorre presentare – scriveva – progetti concreti di iniziative ben individuate […] altrimenti si resta indietro e con le mani vuote». Quei finanziamenti, secondo Sturzo, non erano scontati, e lui lo sapeva avendo vissuto a lungo in America: bisognava conquistarseli con progetti ben fatti di bonifica e di lavori pubblici, altrimenti la corsa era persa in partenza. «Alla scuola di Sturzo – scrive lo storico Vittorio De Marco – si imparava l’arte del buon governo locale (…): si imparava che non era necessario creare sempre nuovi enti che presto si trasformavano in inutili carrozzoni, potendo invece razionalizzare le forze e le competenze presenti nei singoli assessorati; si imparava a gettare un occhio sempre più attento e interessato alle statistiche, ai grafici, alle tabelle comparative prima di intraprendere progetti di legge o fare richieste a Roma; si imparavano ancora le sinergie, diremmo oggi, tra i vari assessorati e la presidenza per bruciare i tempi e avanzare nelle realizzazioni (‘Non ti ho sempre detto – ricordava proprio a La Loggia – che le cose lunghe divengono serpi? ’); si imparava a non cadere nella imitazione dell’alta burocrazia romana, malata di elefantiasi e infine ad essere fedeli alle consegne dell’elettorato». Il vero attuatore del buongoverno sturziano applicato alla Regione fu Piersanti Mattarella, il presidente (20 marzo 1978-6 gennaio 1980) che avviò realmente una rivoluzione a Palazzo d’Orléans. Mattarella fu uno dei pochissimi politici siciliani (e italiani) ad aver capito che per governare bisogna far seguire alle scelte di indirizzo le attuazioni amministrative adeguate. Non a caso la sua rivoluzione, che partiva dalla buona amministrazione e dalla riforma radicale della burocrazia, trovò ostacoli insormontabili, al punto che egli ci rimise la vita. Ma la strada della Regione con le «carte in regola» che il presidente aveva tracciata era ormai chiara. E vale anche per il presente. «È chiaro che un momento rilevante del risanamento – disse Mattarella nelle sue dichiarazioni programmatiche del 3 aprile 1978 – è costituito dalla revisione di tutte le posizioni individuali cui siano obiettivamente collegabili risultati di dissesto. E questo – proseguiva – come necessaria prevenzione al ripetersi, sotto nuovi aspetti, di metodologie e di comportamenti che l’esperienza ha dimostrato inaccettabili e nocivi». La Sicilia doveva (e deve) legittimamente rivendicare un posto chiave nelle scelte di politica nazionale, in forza del suo peso economico e sociale. Ma è evidente che questo posto potrà rivendicarlo, in maniera credibile, solo se si presenterà al tavolo delle trattative con le «carte in regola». La debolezza della rivoluzione crocettiana sta proprio qui: nella sua incapacità di tradurre le enunciazioni di grandi progetti in atti amministrativi conseguenziali. Un esempio per tutti è quello della formazione professionale, un settore chiave per lo sviluppo dell’Isola: la Giunta ha tentato di smantellare un sistema in buona parte clientelare, ma finora non è stata in grado di proporre un’alternativa seria e praticabile. Ciò dimostra che non si può governare coi proclami. E neppure limitandosi a portare le carte ai magistrati. Qualche volta bisognerà pur entrare nel merito dei problemi e provare a risolverli.

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