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Lo strazio in prosa per un figlio morto che rende possibile la resurrezione emotiva

Lo strazio in prosa per un figlio morto che rende possibile la resurrezione emotiva

Come il pianto di Giosuè Carducci, anche quello di Rosario sarà un “Pianto antico”

Di Silvana Grasso |

Per molto, molto tempo, saranno solo domande, inutili, devastanti domande, alla ricerca d’una logica. Ma la logica non sazia il dolore, la logica è sorda al dolore, la logica non s’avventura nella sconosciuta parola del dolore. Hanno alfabeti diversi, impossibili stabilirvi un istmo di comunicazione, o solo comprensione, tra la logica e il dolore. Non abbiamo risposte a molte delle domande di Rosario, inebetito straziato papà di Carmeluccio e Laura. Solo ad una domanda: «Perché li ho portati qui? » possiamo rispondere. Quell’ innocuo avverbio, che papà Rosario indica con «qui», è scena e proscenio d’una irreparabile tragedia di vita, ben diversa da una tragedia di teatro, dove gli attori, esaurito il copione, calato il sipario, riprendono la vita che non hanno perso mai, se non nella magnifica simulazione della scena, che li vede morire accoltellati, insanguinati, straziati.   A sipario calato, si rialza l’attore con la rossa macchia di colore sul petto, che non è sangue, che non fu sangue, che non è morte, che non fu morte. Solo simulazione di sangue, solo simulazione di morte, fu. Si ridesta dalla sua morte finta l’attore e torna, dietro le quinte, alla sua vita di sempre. Senza cerone, senza coturni, senza lama di spada a trapassargli viscere e cuore. Rispondiamo allora. Solo un anno fa, anche noi andammo, spinti da un cupio irresistibile di conoscenza, non sapremmo spiegarlo diversamente, in un«qui» che avrebbe potuto darci, senza che ne avessimo il minimo sospetto, la stessa morte dei bimbi. Andammo, avidi di vederlo da vicino quel mondo sottoterra, che ridesta in ogni essere umano la magia della fiaba e la mitologia dell’ignoto. Quel mondo in cui la Terra si torce, si contorce, prende forme improvvise, tozze, slanciate, acrobatiche, partorisce creature di fango nate da un invisibile prestigiatore, un illusionista che affascina grandi e piccini, senza distinzione d’età. Il nostro «qui», un anno fa, era in una provincia diversa, dal «qui» di Rosario, dei suoi bimbi. Il nostro «qui» era alle porte di Caltanissetta, nella contrada Santa Barbara, dove magici vulcanelli avevano la loro segreta vita d’eruzioni di paturnie, di sbuffi, nelle viscere della terra. Fu solo delusione, nulla vedemmo, non v’era traccia di vulcanelli, non v’era traccia di vita in movimento sommovimento metamorfosi, come speravamo. La terra era arsa, solo brulla terra senza magia, immobile, orribile, nel suo viso rugoso di sterpaglia. Era sopito l’incantatore sottoterra, come spesso succede nelle favole che leggevamo, da bambini.   Fatale e desto era, invece, l’incantatore delle Maccalube. Le Maccalube, il «qui» di Rosario e dei suoi figli, in provincia di Agrigento. Aveva voce, un borbottio di viscere tuonanti, come succede al Circo, quando suoni e rumori sconosciuti impauriscono, ma più incantano, bimbi, amorevoli e grati al papà per queste meraviglie. Meraviglia era far vedere a Carmeluccio e Laura una Natura che prende forma, da un attimo all’altro, il fango che diventa sorgiva, zampillo, scultura, sotto gli occhi increduli, spalancati, affatturati di figli e papà. Una “lezione” di natura intensa e magnifica assai più che una lezione sui banchi della scuola, cercando immagini di sostegno sulla finzione d’un tablet. Un’avventura, sarebbe stata, da raccontare, domani, in classe, a maestri e compagnetti, un’avventura ecologica biologica ma, soprattutto, magica. Questa è la risposta che Rosario cerca, oggi, invano. Invano perché una Tyche imprevedibile, imponderabile, ineludibile ha sovvertito ogni «perché», sfuggito all’ amore d’un padre.   Rosario non ha fatto i conti con la Tyche, forse non ne conosce nemmeno il nome. Forse non l’ha incontrata mai in quelle cruente devastazioni, che il Mito racconta, e che i mortali e gli immortali subiscono. Rosario ha fatto i conti col tempo, una bella giornata di sole. Rosario ha fatto i conti con le intenzioni, magnifiche: stupirli, affascinarli, i suoi bimbetti, d’una Natura che, per lo spazio d’un minuto o più, ha dimenticato d’essere madre, la grande Madre di chi nasce al mondo, oltre le forche del parto. Non si racconta, non si può, l’orfanezza d’un padre, d’una madre, che perdono un figlio, restando mutilati a vita. Solo la Poesia può raccontare, in forma d’elegia, quel che, invece, è strazio nella prosa della Vita. «L’albero a cui tendevi / la pargoletta mano / il verde melograno / da’ bei vermigli fior / nel muto orto solingo / rinverdì tutto or ora / e giugno lo ristora di luce e di calor» (Carducci, Rime Nuove, Pianto antico).   Dante che tendeva la mano piccina al verde melograno, figlio di Giosuè Carducci, era morto, bimbo di tre anni, nel novembre del 1870. Pochi giorni dopo la sua morte, scrive il padre-poeta al fratello Valfredo avevo riposto su quel capo tutte le mie speranze, tutto il mio avvenire! Mi ero avvicinato a lui con quanto amore mi restava nell’anima! E’ inutile parlarmi di consolazione: il tempo potrà rimarginare un po’ la ferita, ma guarirla non mai…   Nella piccola ode, scritta appena dopo sei mesi, il dolore viene sublimato dalla cancrena della sofferenza proprio in virtù dalla Poesia, in cui, per ossimori di luce e suoni, vive il bimbo«fior de la mia pianta/percossa e inaridita/tu de l’inutil vita/estremo unico fior» (ibidem). Vive Dantuccio pur«ne la terra fredda/sei ne la terra negra/né il sol più ti rallegra/né ti risveglia amor». Oltre ogni certificazione oggettiva di morte, testimoniata inconfutabilmente dagli aggettivi, vive nel suo cuore di Padre. E se impossibile appare il risveglio biologico del bimbo, possibile, invece, e continuo, si rivela il suo risveglio emotivo affettivo, la sua resurrezione in virtù d’uno speciale ossigeno, chiamato Amore, che, quasi fosse un dio, opera miracoli impossibili per uomini e scienza. Come il pianto di Giosuè, anche il pianto di Rosario, o di qualunque altro padre, sarà inesorabilmente negli anni un pianto eterno, un pianto per sempre, un «Pianto antico».

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