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Donne, lo spazio della dignità

Donne, lo spazio della dignità

Di Elvira Seminara |

Prima non li chiamavi femminicidi, anzi nemmeno li chiamavi. C’erano semplicemente uomini che ammazzavano mogli e fidanzate, e si parlava di “raptus”, “ furia omicida”, “esplosioni incontrollate” di gelosia. E si diceva “delitto passionale”, come a volerne attenuare l’infamia evocando set romantici, amori estremi e vagamente tossici. Le vittime, infatti, più che persone o donne, figuravano come fidanzate, amanti, mogli, perché come tali solitamente ree, inadeguate o renitenti, perciò condannate alla sentenza mortale. Donne colpevoli, di volta in volta, perché capaci di dire No. A un corteggiatore, un fidanzato, un marito non più amati o stimati. A un padre che vuole imporre un matrimonio o costumi più casti (anche in Italia, nelle famiglie islamiche). Ma il no di una donna è ancora un monosillabo vago e irrilevante, spesso superfluo quando non insolente e fastidioso, per molti uomini. Un no che appare reversibile, cangiante, espressione di quella storica “umoralità” o “fragilità emotiva” che nei secoli il potere ha evocato per escludere le donne da mestieri “seri e virili” – magistratura, polizia, medicina ecc. Perché c’è una cosa che mi colpisce, ogni volta, davanti a questi corpi trafitti e lacerati, squartati. Ed è lo spazio dell’assassinio. Non spazio fisico (spesso è l’auto, ma per motivi contingenti), ma il territorio mentale: è lo spazio sanguinoso in cui negoziare il No, dove l’uomo chiede ancora che il No venga ritrattato. E’ lo spazio, per la donna, della resistenza estrema, dolorosa, dove raccogliere le sue forze residue – messe a dura prova, ogni volta, da mesi di stalking e offese, inseguimenti e aggressioni – per restare fedele a se stessa. O diventare, infine, se stessa. E’ il suo spazio della dignità. E lo vuole difendere, recintare. Da sola. Mi sono chiesta spesso, con rabbia e frustrazione, perché queste donne si consegnino, con quale incoscienza, all’ultimo appuntamento. Quello con la morte. Sono spaventate, ma vanno, stanno lì con sofferenza ad ascoltare il delirio del carnefice – le accuse, le implorazioni, le minacce, le adulazioni. Ma adesso lo so, me l’ha chiarito Valentina, una sopravvissuta allo sterminio. Vai all’ultimo appuntamento perché soffri il dolore dell’altro, perché te l’ha chiesto piangendo, perché ti senti in colpa (!), e sembra fragile come un bambino, perché forse stavolta si convincerà, perché lui ti ha detto che vuole solo vederti l’ultima volta, e sentirselo dire in faccia, e poi ti lascerà in pace. Solo un ultimo abbraccio di addio. Vanno così, emozionate e senza rete, le donne dell’ultimo abbraccio. Vanno così i loro uomini offesi. Con una piccola precauzione, se l’abbraccio non fosse quello atteso, una lama di 24 centimetri. P. S. E non si dica, anche se è vero, che stavolta lui è senegalese, e nel suo paese la violenza sulle donne è dilagante, anzi parte del sistema e delle relazioni fra i sessi. Qua c’è ancora una volta un uomo che uccide una donna – per vendicarsi, riscattarsi o morire alla vita con lei. E quest’uomo è figlio di una donna, fratello di donne, viene dal nostro presente ibrido e molteplice, contaminato e instabile. Per questo io credo in una battaglia comune e critica, che sia non solo giuridica e di controllo, di prevenzione e di pena, ma dentro le scuole e dentro le famiglie, nei posti di lavoro e dello svago, sui media e attraverso una Tv più responsabile. Una campagna di reciprocità e intelligenza, di civiltà e consapevolezza, che veda insieme uomini e donne, ragazzi e ragazze, e bambini, in Europa e nel mondo, per una rieducazione sentimentale, all’amore e al rispetto dell’altro e della vita.

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