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Giuseppe Voza «Così la politica regionale snatura i beni culturali»

Giuseppe Voza «Così la politica regionale snatura i beni culturali»

J’accuse del soprintendente emerito di Siracusa

Di Isabella Di Bartolo |

Siracusa. Per un archeologo, il patrimonio culturale è sacro. E lo è anche l’istituzione nata per conoscere, difendere e promuovere i beni culturali: la Soprintendenza. Da questi tre concetti, anelli di una catena che difende monumenti, musei e paesaggi, prende le mosse la riflessione di Giuseppe Voza. L’ultimo dei grandi archeologi che hanno restituito la Sicilia al resto del mondo. In quarant’anni di carriera e passione, Voza ha scoperto siti come la villa del Tellaro e l’Oikos di Siracusa, ha inventato il museo Paolo Orsi e “disegnato” la tutela moderna della città e del suo comprensorio. Ciò che sta accadendo in queste settimane alla “sua” Soprintendenza, lo amareggia. La rimozione di Beatrice Basile, la rotazione dei dirigenti e, ancora, le querelle su cemento a ridosso delle aree archeologiche o sul mare. «Tutto questo mi addolora – dice –. Le Soprintendenze sono organismi tecnici dipendenti dall’assessorato regionale che è curato da politici i quali dovrebbero dettare direttive, non imporre diktat. Dovrebbero gestire con gli istituti preposti alla tutela, alla ricerca e alla valorizzazione del patrimonio: le Soprintendenze, appunto. Non servono manager, i beni culturali non sono industrie. Lo dice l’articolo 9 della Costituzione: la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela il patrimonio. La Soprintendenza deve gestire, sentite linee politiche, il mondo dei beni culturali con precisione, competenza e professionalità che sono peculiarità dei tecnici. I quali, come prima dote, dovrebbero avere l’indipendenza dalla politica e dalle pressioni localistiche». «Sapere, non potere» Voza interviene all’indomani delle dichiarazioni del direttore regionale dei Beni culturali, Salvatore Giglione, sull’esigenza di epurare le Soprintendenze che rischiano di divenire centri di potere, come Siracusa. «Non gestiscono poteri – dice l’archeologo – ma sono istituti tecnico-scientifici. D’altronde la legge regionale 116 del 7 novembre 1980 lo dice chiaramente. Per lavorare nel settore dei beni culturali esiste un primum: il sapere. E quindi conoscere per poi conservare e valorizzare: se mancano i primi due momenti non può esserci l’ultimo che è anche quello economico. E la conoscenza e la conservazione non possono che essere impersonati dai funzionari. Per questo le nomine non devono essere politicizzate e per questo la legge regionale è chiara e prevede un concorso a titoli. Ritengo fondamentale oggi più che mai rispettarla». Il soprintendente emerito di Siracusa accenna alla questione aretusea e alla rimozione dei dirigenti. «Una vicenda – dice – che finora mi ha dato un senso di sconcerto molto grave. Specie perché ritengo che certe accuse vadano fatte con nomi e cognomi, senza mezze parole. Senza accuse generiche. Credo, conoscendo bene la storia dei funzionari di Siracusa, che prima di alludere a comportamenti scorretti bisognerebbe indicarne i termini precisi». E le accuse contro Siracusa e la gestione del patrimonio che avrebbero imposto alla Regione la decisione di rimuovere l’archeologa Beatrice Basile dai vertici della Soprintendenza e spostare i dirigenti delle sezioni Architettonica, Paesaggistica e Archeologica ad altri ruoli, “sporcano” non solo la città di Aretusa ma la Sicilia intera. «A Siracusa – dice Giuseppe Voza – il patrimonio culturale dà la sua massima espressione nell’archeologia e con l’archeologia e non solo perché è importante per la Sicilia intera e non solo per quello che la terra ci ha restituito ma perche è l’antefatto di tutto ciò che è avvenuto dopo. Per questo, a Siracusa soprattutto, bisogna privilegiare la matrice archeologica. Ed è per questo che pensare che la Soprintendenza più importante storicamente di tutta Sicilia, epicentro dei più importanti studi del Sud Italia, possa essere preposta a un etnoantropologo, a un naturalista o a un manager o ancora a un Carneade credo sia solo un’offesa alla cultura. A 200 anni profusi per assurgere a questo primato che pare debba essere totalmente cancellato». Giuseppe Voza guarda al passato quando parla dell’esigenza di coniugare tutela e sviluppo, salvaguardia e business: dilemma di questi mesi in cui lo spauracchio del cemento sul mare o di villette a ridosso delle mura Dionigiane scatena le proteste di ambientalisti e intellettuali. «Se guardo a quello che ho fatto in 40 anni – dice l’archeologo – posso dire che la corretta ricerca, il ritrovamento e la conservazione sono i tre anelli del nostro lavoro. L’esempio è certo il museo archeologico Paolo Orsi nato nel 1988 con criteri assolutamente moderni che fecero registrare anche 50mila visitatori al mese: ciò significa che tutela e sviluppo si può. Si deve, anzi». E a tale proposito, all’epoca Voza aveva pure pensato di creare un bar al piano terra di villa Landolina come mostra il bancone ancora lì. Un precursore del business dei beni culturali a cui la Regione disse no. Colpa di quella politica poco lungimirante che non vede che l’arte, la storia, l’archeologia non sono solo un pezzo della memoria da salvare, da tramandare, da far conoscere. Ma possono e devono diventare volano corretto di crescita economica. Il progetto boicottato «Poco dopo l’inaugurazione del museo Orsi – racconta ancora Voza – due giovani di Ortigia mi chiesero se fosse possibile abbonarsi al museo. Ricordo perfettamente la gioia di quella richiesta. Ecco, questa è la risposta migliore. Ed è su questo trend che bisognerebbe continuare, non inventarsi un manager o cercare specialisti capaci di indottrinarci, uomini che sanno solo fare spettacolo senza contenuti. Per gestire i beni culturali ci vuole chi li conosca e li ami. Io avrei voluto fare di più per rendere vivo il patrimonio a partire dal mio museo dove avrei voluto proiettare video in diretta degli scavi o del restauro di reperti o monumenti. Poi i fondi mancarono e non se ne fece nulla. Il mio sogno era un patrimonio vivo, capace di interessare e incantare certamente più di un totem sul quale cliccare per fare tour virtuali. Perché nessun viaggio è più bello di quello alla scoperta dei nostri tesori, veri».

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