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Barcellona, una giornata con i 128 reclusi

Barcellona, una giornata con i 128 reclusi dell’ospedale psichiatrico giudiziario

Il reportage dalla struttura messinese, la più grande d’Italia FOTO

Di Mario Barresi |

BARCELLONA POZZO DI GOTTO – «Curnuti, tutti curnuti sono qui dentro! Lei che è giornalista, cu ‘sta penna? Curnutu macari lei è». Chissà dove andrà a finire Pietro – enormi occhi neri spiritati, sigaretta fra le dita fino all’ultimo millimetro di filtro infuocato – quando uscirà «da qui». Passeggia e bestemmia, trovando pace soltanto alla fine del corridoio lungo e stretto. Accarezza le sbarre e si lascia cadere. Un barlume di luce arriva da fuori. Oggi si chiama “secondo reparto”, ma nel 2009 – nel blitz della commissione di Ignazio Marino – era il girone dell’inferno. Il braccio di contenzione, con tre letti, di cui uno di ferro arrugginito con un buco al centro per far passare feci e urine, dove i senatori incravattati trovarono un uomo, le mani e i piedi legati con le garze, da cinque giorni.

 

«Una discarica umana»

Eppure in molti non ci stanno poi così male, «qui dentro». Fra i 128 reclusi nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto che da oggi chiude i battenti – non nel senso che apre le porte e fa uscire i detenuti, ma scatta lo stop a nuovi ricoveri e parte un piano di dimissione degli internati che saranno distribuiti in altre strutture – c’è chi comincia già a rimpiangerlo, questo posto. Non più affollato come sei anni fa, più rassicurante di qualsiasi carcere “normale”. Ma l’inferno non può diventare paradiso, anche perché – citazione usata ed abusata, ma efficacissima – è lo stesso Nunziante Rosania, direttore dal 1989 a parlare di «discarica sociale, un luogo spazzatura» che ha fatto comodo a tutti, «all’opinione pubblica per sentirsi rassicurata» quanto ai politici «per entrare qui e visitarla come se fosse uno zoo».

Eppure a volte ritornano. A bussare alle porte del manicomio criminale. Come ha fatto Paolo, un incensurato catanese, che nel 1992 simulò di avere una pistola nella tasca della felpa per una rapina in un bar. Bottino: 7mila lire. Tempo trascorso in carcere: 22 anni. I compagni di rapina se la cavarono con la condizionale, per lui – con la dichiarazione d’infermità mentale – cominciò un lungo viaggio nel tunnel degli orrori. Che magari saranno meno mostruosi di quello che c’è fuori.

Dai boss alle donne

Vincenza Nolfo è l’ultima degli “Ultimi Giunti” del settimo reparto. Quello riservato alle donne. Nessun contatto con i detenuti maschi, «abbiamo fatto un esperimento di condivisione di spazi e tempi misti, ma poi s’è deciso di fermarsi», racconta Antonino Levito, responsabile dell’Area medica dell’Opg. La signora (tentato omicidio, «dicono che stavo per accendere il gas a casa mia») non sa che destino avrà da oggi in poi. «Ma se posso stare qui un altro po’ non è male. Stanno lavorando sul mio caso e mentre che lavorano io qui ho trovato umanità e calore». Mentre raggiungiamo un’altra delle celle doppie, in tutto sei, una coppia di internate passeggia mano nella mano. Le chiamano «le fidanzatine», non vedono l’ora di farsi immortalare dal nostro fotoreporter.

Chi ha invece le idee chiare è Malinda Caligiore, 46 anni, di Palazzolo Acreide. Chiare sul futuro, dal quale non si aspetta «rose e fiori», ma almeno ha due punti fermi: «Tornerò in affidamento ai familiari, aiuterò mio fratello malato ad accudire mia mamma cieca», magari trovando il tempo «per rivedere il mio fidanzato, un ragazzo di 29 anni, di Lecco, che ho conosciuto quand’ero reclusa a Castiglione delle Stiviere, uno schifo di posto dove ho trovato l’amore». Sul passato le idee sono un po’ meno chiare, perché parla di «una storia da cani» per raccontare «l’incidente che mi ha rovinato la vita». Ovvero: «Ero uscita con i miei cani, un mio vicino mi ha tirato una pietra ed è morto. Poi i cani lo hanno sbranato. Una storia da cani». Malinda, sottoposta a cinque perizie psichiatriche, nel novembre del 2009 confessò di aver ucciso un pensionato di 83 anni, in preda a un raptus, colpendolo a ripetizione sulla nuca con una pietra. L’aveva sorpreso a raccogliere cicoria selvatica nella sua proprietà. Fra un ieri nebuloso e un domani speranzoso c’è un oggi in sospeso. «Si passeggia, si fuma, si prega. Tutto il resto è noia», dice. Mentre sfoglia con parsimoniosa ingordigia il libro sul comodino: Racconti di un pellegrino russo, «una storia di fede e di coraggio».

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Il reparto femminile dà un senso di netta protezione. Pareti più spesse, sbarre più grosse, porte più pesanti. «Qui dentro c’erano i superboss finti pazzi», raccontano. Con un elenco in cui c’è l’élite di Cosa Nostra: dal primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, a Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, fino al fratello di Nitto Santapaola, non a caso conosciuto comeNinu ‘u pazzu. «Ma è stata fatta pulizia: non ci sono più casi come questi», ricorda il direttore Rosania. Nell’ultimo giorno prima dell’inizio del grande esodo sono poco meno di una ventina di assassini, qui dentro. Più che killer pazzi Barcellona ospita rubagalline che pazzi lo sono diventati. In carcere. O nei tragitti fra un piccolo crimine e una cella angusta. Come Emilio Lebiati, toscanaccio che a Barcellona aveva già trascorso 9 anni della sua vita giovane e sbandata. Ed è tornato, da una settimana, in Opg: furto in appartamento. «Mi avevano dato una casa per ricominciare, ma non ci sono riuscito. E rieccomi qui – dice buttando uno sguardo persino complice alla guardia carceraria – con la certezza che questo non è un fallimento, ma un progresso! Fuori è dura. Io non volevo più soffrire».

Fumo, sudore e “vocine”

Gli odori che prevalgono, nel lungo corridoio del “Secondo” sono quelli del sudore fumoso di mille passeggiate e del fumo sudato di mille sigarette. Qui le celle sono con almeno 5-6 letti, sformati dall’insostenibile leggerezza del divenire. Mani unte dalle patatine dello spaccio nel gazebo in giardino. E tanto tempo per pensare. Pure troppo. C’è chi s’è suicidato, come qualche settimana fa un recluso per omicidio qui dentro da 15 anni; c’è chi ha provato a fuggire, come un ragazzone, più goffo che criminale, spinto da un’improvvisa voglia di «vedere se c’è una vita fuori». La vita dentro, invece, è rallentanta dagli psicofarmaci. «Ma non è più la principale terapia – precisa Levito – perché adesso puntiamo molto di più alla socializzazione e ai laboratori per stare bene qui e per tenersi allenati per il mondo esterno».

Daniele parla in un misto fra un bignamino di procedura penale e un cronista di giudiziaria degli anni 60. Racconta del suo «piccolo schiaffo a un brigadiere», quella notte. Uno spinello, l’ennesimo litigio con la sua famiglia. «Volevano che spegnessi il computer, hanno compiuto una tripla violazione della mia privatezza». Alle spalle una lunga storia di incomprensioni, perché «mi è sempre mancato un minimale apporto pedagominico». E poi lui, a Termini Imerese, nella sua cameretta lavorava. A una faccenda che non vuole rivelarci, perché «trattasi di un avvenimento di straordinaria entità che ha sconvolto la mia persona e potrebbe sconvolgere il mondo intero, per questo sono entrati nella mia mente con chiavi e piede di porco per rubare quello che un genio custodisce».

«Massacrati di botte» 

Ma c’è chi i cattivi sostiene di averli incontrati nei manicomi criminali. Crisafi Neculai, calabrese, presidia l’ingresso dell’”Ottavo”. «Mi hanno messo dentro per maltrattamenti in famiglia: una spinta a mio padre. Ma è in questi posti, che io giro dal 2009, che veniamo maltrattati. Ci prendono in 4-5 guardie e ci massacrano di botte. Siamo immondizia, immondizia umana». La distinzione fra chi ci è e chi un po’ ci fa, qui dentro, è questione di 50 sfumature di quel blu dipinto di blu che tinteggia porte, finestre e sbarre.

Il sospetto sgattaiola sornione quando ti si para Saiful Islam, condannato per aver sgozzato il senatore trapanese Ludovico Corrao con un coltellaccio da cucina. «Basta parlare di lui! Io sono pentito, ho chiesto scusa a Dio e alla famiglia di lui». E adesso “Emmeddì” ha paura: «Non voglio andare alla Rems, il mio avvocato dice che non è buona. Ho paura, voglio restare qui. Glielo dici tu al giudice? Anzi no: voglio andare in comunità, a Modena, vicino a dove sta mio cugino». Continua a seguirci e a implorarci, mentre osserviamo lo spazio esterno dell’”Ottavo”. Un campetto di calcio che è anche il percorso di una processione della Madonnina, venerata come quella salesiana, nel bel mezzo del giardino, «costruita da detenuti musulmani».

Entriamo nel terzo padiglione, un tempo reparto “degli aggressivi”. Muri scrostati, muffa alle pareti, enormi celle singole. Ma i carcerati sono liberi, guardati a vista da un paio di infermieri che hanno pure imparato a fare l’orlo ai pantaloni oltre che a essere confessori.

Arriviamo al “Quinto”, qui 4-5 letti per stanza. Simbolo di una promiscuità di pene e di vite. Chissà dove andranno a finire, quelli di Barcellona? In una comunità terapeutica vorrebbe tornare Elmo Montalto, detenuto cosentino, dentro da 11 anni. «Mi accusano di violenza carnale su mia sorella, ma io le volevo bene. Era una voce che mi diceva di farle del male, io mi ribellavo ma lei gridava sempre più forte. Io mi tappavo le orecchie, ma vinceva sempre lei. La vocina… ». Più probabile che si realizzi la semilibertà di Daniele Lombardo. Il giovane trapanese, marchiato di “pericolosità sociale”, non vede l’ora di riabbracciare i suoi figli, un maschietto di 5 anni e una bimba di 3. Gli resta da scontare qualche mese per maltrattamenti in famiglia. «Ma ora che Barcellona chiude andrò almeno in comunità. Che è meglio del manicomio».

Elmo, Daniele. E tutti gli altri. Tutto è meglio del manicomio, niente è meglio del manicomio. Da oggi comincia il viaggio più lungo. Dalla discarica differenziata per menti malate e pericolose, a tutto quello – brutto e bello – che c’è nel resto del mondo. Dicono che chi sta qui è fuori di testa. Ma, ora che si va fuori davvero, la testa vorrebbe restare dentro. Confusi e impauriti. Ingordi e inebriati. Come quando, alle sette della sera, arrivano i polli allo spiedo e le patatine fritte.

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