la storia
"Porcovacca", i salumi che restituiscono valore: la vacca di montagna diventa memoria
Ivan Costanzo allevatore di Randazzo, macellaio e trasformatore, crea nuovi salumi “vulcanici”
Restituire valore a un animale, anche dopo la sua morte. Sembra strano parlare così di una vacca, un maiale, una cavallo che diventano salumi. Eppure, per Ivan Costanzo, 36 anni, di Randazzo allevatore di montagna, macellaio e trasformatore, ogni salume è un modo per restituire memoria e dignità a una vita animale che non finisce con la macellazione, ma continua nel racconto e nel gusto di salumi di nuova concezione. A partire dal “PorcoVacca” un salame fatto da carne di maiale e di vacca di montagna, un’unione insolita e sorprendente, oppure il prosciutto di vacca di montagna o, ancora, il “Finalfegato”, un altro salume che utilizza anche il quinto quarto del maiale.
Da dove parte la vostra storia?
«Dai miei bisnonni, siamo alla quarta generazione di allevatori. Oggi c’è mio padre Francesco e noi quattro fratelli, Sebastiano, Micaela, Luana, Ivan. Anche mia mamma Carmela ha un ruolo nell’azienda. Alleviamo vacche, cavalli, maiali, pecore, un po’ di tutto, come si faceva una volta, quando la vacca serviva per il latte dei bambini, il maiale per i salumi, il cavallo per muoversi più velocemente. Era un sistema completo, rispettoso, necessario».
Ha sempre voluto fare questo lavoro?
«Da piccolo, come tutti i ragazzini, sognavo di giocare a calcio, andavo a scuola di equitazione. Mi sono diplomato in ragioneria all’Istituto commerciale. Vedevo gli altri coetanei che andavano via per fare esperienze fuori Sicilia e anch’io ero curioso sì di fare altre cose, ma a un certo punto mi sono accorto che tornavo sempre al punto di partenza. Io all’epoca non lo sapevo ancora, ma era come se avessi avuto un “imprinting”, sulla strada percorsa dai miei nonni prima e dai miei genitori poi, così cominciato a lavorare con la mia famiglia».
Oggi questa “eredità” pesa o protegge?
«Protegge, se la sai ascoltare. Quello che so l’ho imparato guardando. Da mio padre soprattutto. Non mi ha mai imposto nulla. Non mi ha mai detto “devi fare così”. È rimasto sempre un passo indietro, e proprio per questo, mi ha insegnato tutto. Ancora oggi, quando lo vedo preoccupato perché c’è poca erba o una vacca deve partorire, capisco cosa significhi davvero allevare: non hai solo i tuoi figli, hai centinaia di vite di cui prenderti cura».
Quanti capi di bestiame avete?
«Complessivamente più di 500 fra vacche, cavalli sanfratellani, suini, che “muoviamo” tra Etna, Nebrodi e Alcantara, dai 400 ai 1.300 metri facendo la transumanza, come un tempo. Li spostiamo per far riposare il terreno. Il nostro metodo di allevamento è rigenerativo: cerchiamo di rispettare il territorio, permettendo all’erba di rinascere, dando più riposo al pascolo come si faceva un tempo, mentre generalmente si tende a rimanere con gli animali sempre negli stessi luoghi. Non scordiamoci che stiamo andando incontro a cambiamenti climatici importanti con i quali dobbiamo fare i conti cercando di interpretare e cambiare delle modalità di allevamento che non per forza devono essere quelli dei nostri antenati».
Oggi però il mercato sembra andare in un’altra direzione...
«È vero. Il consumatore medio sta scomparendo. I prodotti che vendiamo nella nostra macelleria agricola a Randazzo (The original black pig) costano di più e vanno “spiegati”. Ma non posso tradire il metodo. Non posso forzare i tempi. Se non sono convinto di un prodotto, quel prodotto non esce. È una responsabilità verso chi lo mangia, ma soprattutto verso l’animale da cui nasce».
È qui che entra il concetto di “restituire valore all’animale”?
«Sì, e parte tutto da una domanda semplice, ma scomoda. Nel 2017-2018 avevamo delle vacche adulte da macellare. Mi sono chiesto: perché la vacca di fine carriera vale meno di un vitello, quando spesso è più buona, più intensa, più vera? Perché considerarla un animale “finito”? Da lì ho capito che dovevo andare controcorrente».
È nato così il prosciutto di “vacca di montagna”?.
«Esatto. Le nostre vacche vivono sopra i 700 metri e spesso vivono più di vent’anni. Sono animali che hanno vissuto all’aperto, senza stress. Perché interrompere tutto questo senza raccontarlo? Così attraverso il prosciutto quella vacca continuerà ad esistere, di quell’animale si continuerà a parlare».
Per noi comuni mortali sembra strano dirlo di un animale macellato...
«Ma è così: il salume diventa memoria e la creatività entra in gioco, perché non basta allevare bene. Bisogna trasformare con intelligenza. Nel 2018 ho iniziato a studiare il suino nero dei Nebrodi, poi sono andato in Spagna, in Andalusia, per capire come lavoravano il suino iberico. Nel 2023 sono andato in Castiglia e León, dove producono la “cecina di León” da vacca di montagna (un prosciutto di manzo stagionato e affumicato ndr). Ho portato i miei salumi in Spagna, li hanno assaggiati, sono rimasti sorpresi».
Per il prosciutto crudo di vacca di montagna?
«Sì. Siamo già al secondo anno di produzione, è una sfida enorme. La carne della vacca ha tempi diversi, reagisce in modo diverso. Stiamo sperimentando anche la stagionatura in grotta lavica. All’inizio sembrava impossibile, oggi è una delle cose che mi dà più soddisfazione. Quando allevatori spagnoli, che fanno questo da una vita, mi dicono “stai facendo un bellissimo lavoro”, capisco che lo studio e la fatica valgono».
Cos’è il salame “porcovacca”?
«Un salame nato dall’unione di carne di vacca e suino nero. È un salume senza additivi, con il Nerello Mascalese dell’Etna invecchiato oltre dieci anni dei miei amici Paolo e Bruno. Io lo definisco un salame “vulcanico”, perché nasce sull’Etna, da animali di montagna allevati sull’Etna, con un vino dell’Etna. L’abbiamo chiamato “PorcoVacca”, strizzando l’occhio alla parolaccia, con un pizzico di ironia. Oggi lo chiamano tutti “Porcavacca”, ma va bene così. Ci sorridiamo sopra, ma dietro c’è un’idea seria: mescolare tradizione e futuro».
E il salame Finalfegato?
«È un salame nato dal recupero dei quinti quarti, un atto etico. Il fegato per me è lo specchio della vita dell’animale. Se ha vissuto bene, è perfetto. Usarlo significa rispettare quel maiale fino in fondo, non buttare via nulla, arrivare, appunto, “fino al fegato”. Oggi questi tagli si stanno perdendo e invece raccontano tantissimo. Lo stesso vale per la bresaola di cavallo Sanfratellano. È un modo per continuare a parlare di quel cavallo, di quello che è stato».
Com’è la vita dell’allevatore moderno?
«Non è una vita semplice. Non esistono Natale, Pasqua, ferie. La sveglia suona alle cinque e mezza. Campagna, macelleria, salumi in stagionatura, burocrazia. Ci sono momenti in cui ti chiedi “chi me l’ha fatto fare?”. Ma poi guardi avanti. Ti adatti. Perché se vuoi restare dentro questo mondo che cambia, devi cambiare anche tu».
Tra dieci anni dove si vede?
«Qui. A limare quello che non va. A studiare ancora. A creare nuovi salumi, forse con vini impossibili, forse con altri quinti quarti. Sempre con l’idea di restituire valore. Agli animali, al territorio, a una storia che merita di essere raccontata».