SICILIANS
Celestino Drago, un sogno partito da Galati Mamertino: lo chef che ha fatto dell’autenticità italiana a tavola un impero negli Usa
Prima che fosse di moda, insegnava agli americani il vero gusto della cucina italiana. Radici siciliane, strategia e visione: così con la sua famiglia ha costruito un’impresa di successo del food
Novecento dollari e il cambio di vestiti per due settimane. In quella valigia fatta in fretta nel 1979, Celestino Drago non aveva altro. «Ma perché non era mia intenzione trasferirmi negli States - racconta -. Io pensavo di fare un’esperienza di lavoro, approfittare di un biglietto aereo pagato per fare due settimane a Los Angeles». Invece, una volta arrivato, lì venne folgorato sulle strade della California dalla “mission” della sua vita: far conoscere agli americani l’autentica cucina italiana. «Non c’erano gli ingredienti giusti, era una cucina introdotta negli Usa dagli emigrati italiani che s’improvvisavano cuochi senza aver alcuna esperienza ai fornelli, a loro serviva un lavoro e facevano quello che voleva la gente. Ho trovato una cucina orrenda, in particolare quella del Sud da cui provenivano la maggior parte degli italiani, piatti stracolmi di pomodoro, piccanti, pesanti... Quella era considerata la cucina italiana, e non era nemmeno lontanamente quello che avrebbe dovuto essere. Così mi sono messo in testa una cosa: se io rimango qui devo fare la vera cucina italiana e aprire un mio ristorante. Ho aperto il primo nell’83».
Ha sempre voluto fare questo mestiere?
«In realtà è stato un caso. Ho frequentato l’Istituto tecnico industriale e sono partito da Galati Mamertino per andare a Pisa a fare la scuola da perito meccanico. Mentre studiavo in Toscana arrotondavo lavorando nel ristorante “Pierino” di Ignazio e Francesco Diana. Ho iniziato da lavapiatti, poi un giorno mi misero a fare dei primi. Io sapevo fare le ricette semplici di mia madre e man mano mi sono appassionato, così al termine della scuola quando mi offrirono un posto alla Piaggio, e ci avevano scelto solo in due su 600, rifiutai».
La cucina era nel dna di famiglia?
«Io come primogenito di 8 figli sono stato fortunatissimo, perché sono stato quello cui i miei genitori hanno potuto dedicare più attenzioni. Mio padre era un contadino, in campagna mi faceva vedere come si coltivavano i pomodori, mi affidò un pezzettino d’orto “Questo è tuo, portalo avanti”, e mi ha insegnato tutto. Mi portava con gli animali, mi ha insegnato a mungere le pecore, a fare il formaggio, a mietere il frumento. Mia madre mi ha insegnato a cucinare a rifare il letto, a stirare...».
Quanto di tutto questo s’è portato dietro negli Usa?
«Tantissimo, ma non solo nella ristorazione. Direi che ho avuto una “foundation” umana e culturale molto accurata, che mi serve non solo sul lavoro, ma come strumento di vita».
La sua sliding door quand’è arrivata?
«La passione vera e propria per la cucina è sfociata mentre lavoravo nel ristorante di Pisa. In pochissimi anni sono diventato lo chef assieme al proprietario che mi aveva dato fiducia. La gente cominciava a parlare di questo giovane ai fornelli. Un giorno si presentò un signore che aveva sentito parlare di me e mi disse “Un mio amico ha un ristorante a Hollywood e ha bisogno di uno chef giovane che conosce la cucina toscana, perché non vieni? Se ti piace rimani. Io accettai, ma pensavo che sarei ritornato».
E quando ha capito che gli Usa sarebbero diventati la sua seconda patria?
«Quando mi sono messo in testa di “educare” gli americani alla vera cucina italiana. In quel periodo, nel ‘79, era tutto bellissimo. Mi sentivo come un bambino in un negozio di caramelle, era tutto divertimento, lavoro, amici. Venni assunto come chef al ristorante italiano di Los Angeles, Orlando Orsini, i miei genitori nemmeno sapevano che fossi in America».
Davvero?
«Non avrebbero voluto che io rimanessi in Toscana, figuriamoci dall’altra parte dell’oceano».
Era partito da solo?
«All’inizio sì, poi ho fatto venire mio fratello Calogero che nel frattempo s’era diplomato all’Alberghiero di Giarre. In meno di un anno ero già alla guida del mio primo ristorante “Celestino” a Beverly Hills. Nel giro di qualche mese ci hanno raggiunto anche Tanino e Giacomino. Oggi a Los Angeles siamo io, Calogero, Tanino, Giacomino e Carolina. A Galati c’è mio fratello Pino con il suo ristorante Degusto, e purtroppo si occupa anche di politica locale. Maria Lucia abita a Messina e insegna alle scuole elementari. Nino ci ha lasciato troppo presto così come mio papà Antonino. Mia mamma Carmela all’età di anni 90, abita sempre a Galati e ancora ci tiene a tutti sotto controllo come ha sempre fatto da quando eravamo bambini».

Per un ragazzo che volesse ripercorrere le sue orme sarebbe possibile farsi strada nell’America di oggi?
«Quella del ‘79 era un’America molto diversa, però le dico che è ancora possibile anche se molto più difficile. Oggi per avere un lavoro qui ci vogliono qualifiche molto specifiche, prima si deve dare l’opportunità a un cittadino americano, a meno che non si abbia un minimo di 500mila dollari da investire, in quel caso un permesso si ottiene subito. Allora era tutto molto più facile: il datore di lavoro faceva una domandina, le carte si “sbrigavano” molto in fretta e uno cominciava a lavorare. E poi era pure una terra vergine dal punto di vista dell’italianità a tavola. Oggi ci vogliono sempre talento e voglia di fare, però in quel periodo lì portare l’autenticità italiana era una novità».
Come ha conquistato gli americani?
«Con gli ingredienti. Ero un po’ fissato. Mi portavo i semi dalla Sicilia, mi facevo coltivare i pomodori, la rucola, il basilico... Oggi mi arriva tutto dall’Italia, anche il pesce freschissimo. Ci sono anche tanti farmers che coltivano, si trova tutto e subito.
Quando arrivai io non esisteva il riso come lo conosciamo noi, l’Arborio, il Carnaroli, non sapevano cosa fossero, facevano il risotto istantaneo con quello che usavano i cinesi».
Guardando indietro, qual è il segreto del suo successo?
«La volontà di fare e la passione che avevo dentro. Di più: l’amore per la mia patria, per la Sicilia. Quando ho visto le insegne dei ristoranti con la dicitura “North italian cuisine”, quasi a dire che la cucina del Sud non fosse quella giusta, l’ho presa quasi come un insulto e lì è partita la mia battaglia personale».
Un impegno didattico il suo...
«Assolutamente. Per me la sala del ristorante è un’aula scolastica, bisogna insegnare, fare capire alla gente anche la cultura e la storia che c’è dietro un piatto, solo così possono capire... In uno dei miei ristoranti che ho chiamato “L’arancino” c’è il menù scritto in dialetto siciliano e in inglese. Ho voluto portare in tavola quello che avevamo noi in Sicilia».
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E oggi da parte dei suoi clienti c’è una consapevolezza maggiore su questo fronte?
«Sìcuramente, anche più di quanto avrei potuto immaginare. Si è andati oltre la “cucina italiana”. Qui ci sono ristoranti che fanno cucina regionale, sarda, romana, siciliana, campana... oggi si esprime un territorio con i piatti».
Quanti ristoranti ha oggi?
«Una decina in tutto. Alcuni con i miei fratelli, poi ho anche una panetteria-pasticceria, un servizio di catering per gli special event con “Drago centro” che è il posto dove lavoro di più. Abito a Century City, un quartiere attaccato a Beverly Hills, ma la sera sono lì, la mattina, invece, sono al Pastaio, sempre a Beverly Hills. Tanino si occupa di “Alloro”, Calogero del ristorante a Pasadina, sono tutti locali vicini una mezz’ora l’uno con l’altro».
E c’è una nuova generazione Drago in campo?
«Speriamo. Io ho due figlie Olivia, 29 anni, che lavora al Pastaio, Francesca che ne ha 27 e si occupa di moda. La figlia di Giacomino studia in Svizzera come hospitality manager, la figlia di Tanino è nello stesso settore... È un lavoro durissimo. Io alle mie figlie l’ho detto: “Non lo fate perché vi sentite in obbligo di portare avanti qualcosa, fatelo per voi se vi va, ma dovete avere la passione nel sangue”».
Cosa le ha dato e cosa le ha tolto questo lavoro?
«Mi ha dato tantissime soddisfazioni, ho potuto esprimermi secondo i miei desideri, ho fatto i miei investimenti, ho avuto tanti riconoscimenti, sono stato nominato Cavaliere del Lavoro dal presidente della Repubblica, mi invitano nelle università a parlare della mia storia... Quello che mi è mancato è stata la mia terra, la Sicilia, le tradizioni, una sensazione che è difficile spiegare. Sono qui da 46 anni, e tanti dei miei fratelli non li ho visti crescere se non per un mese l’anno, d’estate, in Sicilia. Quando diventi un po’ più maturo questa cosa ti pesa di più, infatti ho deciso di trascorrere almeno 4 mesi l’anno in Sicilia. Ho costruito una casa a Capo d’Orlando, ho piantato dei vigneti a Galati Mamertino...».
Vuole fare anche il vino?
«È un vigneto sperimentale. L’ho fatto anche per invogliare i giovani a restare. A loro vorrei dire “non dovete andar via, abbiamo dei terreni che ci offrono tutto, mi auguro che altra gente veda questo piccolo vigneto a Galati e ne faccia altri. Per i miei 60 anni è nata la Fondazione Celestino Drago, per contribuire a conservare tramite i racconti della cucina, la memoria di quelle tradizioni che stanno scomparendo. Un giorno chi si ricorderà chi era tuo nonno? I giovani di oggi vivono nell’era dei social media, degli iPhone, tutto per loro è a portata di mano. Devono sapere che una volta era solo frutto del proprio sudore».

Il piatto che la riporta a casa?
«Una specie di caponata che faceva mio padre con i vegetali. Lui cucinava in padella ogni ortaggio a parte, peperoni, melanzane, patate... Poi metteva tutto assieme con un po’ di cipolla e pomodoro. A mio padre piaceva cucinare. Anche quando ai fornelli c’era mia madre lui doveva sempre aggiungere il suo “tocco”. Quel profumo, quel sapore, così come la salsa di pomodoro di mia madre, ce li ho sempre con me, anche se qui gli ortaggi non avranno mai il sapore della Sicilia. È tutto questo che noi chef abbiamo il dovere di portare a tavola: il racconto di queste tradizioni, di questi sapori, della convivialità, del senso dell’accoglienza, che poi è quello che rappresenta la cucina italiana. Oggi l’ha certificato anche l’Unesco, ma noi lo sappiamo e lo divulghiamo da sempre».