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La ricerca

Stefano Pluchino, il medico di Ragusa che può battere la sclerosi multipla

Andato via dalla Sicilia a 18 anni, ha trovato a Cambridge, dove è professore di Neuroimmunologia rigenerativa, il suo «posto felice». L’Italia? «Forma talenti ma non sa come farli fiorire e non ne attrae dall’estero»

Leandro Perrotta

31 Dicembre 2025, 12:48

Stefano Pluchino, il medico di Ragusa che può battere la sclerosi multipla

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«Il mio posto felice è Cambridge, in Inghilterra. Il mio posto del cuore è Cava d'Aliga, in Sicilia». Stefano Pluchino, professore di Neuroimmunologia rigenerativa all’Università di Cambridge, non ha dubbi. C'è una geografia degli affetti e una della realizzazione professionale che, nella vita di uno scienziato emigrato, raramente coincidono. Se la città universitaria britannica è il luogo dove si sente «al sicuro» e la sua carriera ha trovato il terreno fertile per svilupparsi senza ostacoli, nella frazione balneare ragusana i sentimenti si prendono la scena. È lì che ha trascorso le estati da bambino, tra i nonni e i cugini. «È il posto che mi fa battere il cuore, quello dei ricordi d'infanzia, delle cose che ti rimangono per tutta la vita», racconta Pluchino. Ma la felicità professionale, la quotidianità fatta di sfide intellettuali e riconoscimenti, ha un altro indirizzo postale.

La storia di Pluchino è emblematica di una generazione di eccellenze italiane. Ha lasciato la sua Ragusa a 18 anni, nel 1989, per seguire un percorso di studi che lo ha portato prima a Siena, poi a Milano al San Raffaele, e infine nel Regno Unito. Una traiettoria non pianificata a tavolino ma guidata da quella che lui definisce una combinazione di fortuna e opportunità colte al volo, le celebri "sliding doors". Quelle che nel 2007 lo hanno portato a vincere il Premio Rita Levi Montalcini, assegnato dalla Fondazione Italiana Sclerosi multipla (Fism) per la sua ricerca sulle terapie con cellule staminali neurali che oggi promettono di poter battere quella malattia. Scorrendo l'albo d'oro, tre nomi sono legati da un filo rosso: Gianvito Martino nel 1999, Stefano Pluchino nel 2007 e Luca Peruzzotti Jametti nel 2022. Il maestro, l'allievo e l'allievo dell'allievo. Quasi una successione dinastica “made in Cambridge”.

La realtà, però, racconta l'evoluzione stessa del mestiere di scienziato. «La mia carriera non era pianificata per niente, io volevo fare il medico», racconta Pluchino, smontando subito l'aura di predestinazione. «Non avevo nessuno in famiglia che mi facesse da mentore. La verità? Fortuna, sia per Gianvito Martino che nel mio caso». Erano tempi diversi, in cui il talento grezzo, unito a quella che Pluchino definisce coloritamente «una botta di culo» poteva bastare per emergere. Ma con la terza generazione, quella rappresentata da Peruzzotti Jametti, la musica cambia radicalmente. «Il premio di Luca è tutto pianificato, ovviamente», ammette. Studente al San Raffaele, tesista con Pluchino nel 2007, Peruzzotti Jametti ha seguito il suo mentore a Cambridge nel 2014. Da quel momento, nulla è stato lasciato al caso. In un mondo accademico oggi iper-competitivo, l'approccio romantico non paga. «Non ti puoi svegliare e dire "voglio capire le cause delle malattie" e basta. Devi pianificare cosa studiare, come studiarlo, se è "vendibile", se rappresenta una svolta reale o è solo scienza replicativa». La lezione è chiara: oggi, per eccellere, il talento da solo non basta più.

Nel 2007 Pluchino ha ricevuto il Premio Rita Levi Montalcini, assegnato dalla Fondazione Italiana Sclerosi multipla (Fism), dalla senatrice a vita in persona

E così anche la retorica della "fuga di cervelli" crolla per fallacia logica. L'analisi che il professore fa del sistema accademico e scientifico è quasi spietata. Il problema, sostiene Pluchino, non è che gli italiani vadano all'estero. «Il problema è che per me che me ne vado via dall’Italia, non ne arriva un altro», spiega. «Se io vado dal rettore a Cambridge e gli dico che me ne vado, lui mi augura buona fortuna perché sa già che fuori c'è la fila per prendere il mio posto. In Italia il sistema mi perde e non arriva nessuno a sostituirmi con lo stesso profilo internazionale». Manca la reciprocità. «Dovrebbe essere un motivo di orgoglio che uno scienziato italiano vada a fiorire altrove, ma il dramma è che nessuno viene a fiorire in Italia. Non c'è un tedesco, un francese o uno spagnolo che vince un premio prestigioso lavorando da un'università italiana». I dati confermano questa visione. Pluchino cita i prestigiosi grant dell'European Research Council (Erc): «Quando escono le liste, vediamo che tanti italiani vincono. Questo dimostra che non siamo “stupidi”, anzi, siamo competitivi quanto inglesi o tedeschi. Ma su 15 italiani che vincono, 13 lo fanno da università estere. Il "magic mix" della scienza è fatto dal cervello dell'individuo ma anche dall'ambiente. Evidentemente, università come Cambridge, Parigi o Groningen offrono quell'ecosistema che in Italia manca».

Non è solo una questione di strutture, ma anche di trattamento economico e dignità professionale. Il confronto sugli stipendi è impietoso. Pluchino ricorda: «La mia busta paga nel 2010 in Italia era molto simile a quella di oggi. Ho incontrato recentemente un collega rimasto al San Raffaele e mi ha detto che in dieci anni è aumentata di forse di 50 euro. In Inghilterra lo stipendio è cinque o sei volte più alto». Siamo ben oltre i 10mila euro, quindi, ma la differenza non sta solo nella cifra, bensì nel modello. In Italia, «il sistema sembra dare per scontato che un medico accademico debba integrare lo stipendio con l'attività privata, le visite, le consulenze». Però «In Inghilterra l'attività privata per un accademico praticamente non esiste. L'università ti dà uno stipendio che non ti offende e che giustifica il lavoro che fai per l'istituzione». Se devo cercare fonti di sostentamento altrove, è inevitabile che lavorerò peggio per l'università.

C'è poi una questione di mentalità imprenditoriale applicata alla ricerca, per Pluchino un passaggio attraverso la "Valle della morte": quel momento critico in cui la ricerca traslazionale, che deve passare dai laboratori ad applicazioni pratiche, non è più sostenuta dai fondi accademici di base ma non è ancora pronta per il mercato. «All'estero c'è una struttura pronta a supportare questo passaggio, con uffici di trasferimento tecnologico che funzionano. In Italia si sta iniziando, ci sono esempi virtuosi, ma è una mentalità ancora da costruire appieno».

Eppure, nonostante le criticità del sistema, il legame con l'origine non si spezza. «La Sicilia non si può cancellare, come diceva Leonardo Sciascia», ammette il professore. È un richiamo viscerale che coinvolge anche le nuove generazioni. Suo figlio, cresciuto tra Milano e Bergamo e trasferitosi a Cambridge a 14 anni, ha completato le scuole nel Regno Unito e ora frequenta l'università lì. «Anche per lui il posto del cuore è la Sicilia. Un'assurdità, forse, ma è così». Cambridge rimane il “posto felice”, quello della sicurezza e della realizzazione, una città dove la storia si respira in ogni pub, come quello in cui Watson e Crick annunciarono la scoperta della doppia elica del Dna o uno frequentato dai Pink Floyd. Ma Cava d'Aliga resta «il rifugio dell'anima». Un dualismo che forse non si risolverà mai, ma che racconta la condizione dello scienziato contemporaneo: cittadino del mondo per necessità e talento, siciliano per un'ineludibile legge del cuore.