SICILIANS
Elisa Privitera, una catanese a Toronto: «Persone e storie per costruire le città del futuro»
Premiata per le ricerche “coraggiose” su giustizia climatica e ambientale, i suoi studi sono partiti da San Berillo e dal petrolchimico di Gela: «Le comunità povere sono più esposte a eredità tossiche»
C’è qualcosa che il quartiere di San Berillo ha in comune con la città di Gela, e che tutt’e due hanno in comune con la periferia di Toronto, in Canada. Ne è convinta Elisa Privitera, 34 anni, che da Catania si è spostata in America per dimostrare che «non solo il personale è politico; il personale è anche scientifico».
Per dirla meglio: gli effetti delle contaminazioni ambientali sulle persone non sono solo quelli dei nessi di causalità di certe malattie (difficilissimi da dimostrare scientificamente, o da attribuire a responsabilità precise), ma sono anche psicologici. Ed esistono, hanno valore, devono essere tenuti in considerazione. Di più: le politiche ambientali possono, e devono, essere costruite dialogando con la popolazione. Un lavoro complesso che è valso a Privitera il Courageous Scientists Award 2025, che le è stato consegnato a Vienna, per i suoi studi sulla giustizia climatica e ambientale.
Privitera, lei si è laureata in Ingegneria edile e architettura all’università di Catania, i suoi studi hanno riguardato l’urbanistica. Cominciamo dall’inizio.
«Beh, io sono, ci tengo a dirlo, una figlia dell’università di Catania. Durante i miei studi, però, ho trascorso parecchio tempo all’estero: due Erasmus, un semestre in Giappone, un tirocinio in Germania... Dopo la laurea ho fatto un master a Venezia, ho vinto una borsa di studio e sono andata negli Usa e poi sei mesi in Svezia. Quando ho fatto il dottorato in Pianificazione ambientale, sempre a Catania, mi sono avvicinata al progetto di Trame di quartiere, a San Berillo. Ho trascorso molti mesi con gli abitanti e con gli attivisti e le attiviste. Oltre alla revisione della letteratura e all’analisi dei dati, c’è stato un lavoro intensivo sul campo. Ho seguito l’approccio che si chiama della “palla di neve”, cioè parli con qualcuno che ti presenta qualcun altro e via dicendo. Così mi sono occupata di mappare i bisogni del quartiere, nell’ottica della creazione di laboratori di comunità. San Berillo è un rione più eterogeneo di quello che si racconta, con una popolazione variegata in cui le categorie delle persone migranti e dei e delle sex workers hanno bisogno di strategie mirate di integrazione come le altre».
San Berillo in città è una specie di simbolo delle cose che non funzionano, quantomeno in relazione a una certa parte della popolazione che abita il quartiere.
«La narrazione è solo quella del “buttiamoli fuori”, senza interrogarsi però su quali siano i servizi che possano servire al quartiere e ai suoi abitanti. Mentre lavoravo alla tesi ho fatto un lavoro molto più centrato sul tema del diritto alla casa più che sull’urbanistica tradizionale. Quando ho lavorato lì ho ascoltato molte storie di vita, ciascuna delle quali raccontava anche l’evoluzione del contesto urbano dentro al quale si muoveva. Così ho maturato la convinzione che la rigenerazione non può esimersi dal coinvolgimento delle persone che abitano i luoghi, e che le storie debbano essere uno strumento urbanistico. Quando sono arrivata in Svezia ho poi approfondito il tema delle autobiografie tossiche. E cioè del fatto che le comunità più marginalizzate sono anche le più esposte alle contaminazioni di carattere ambientale».
Anche a San Berillo? Quando uno pensa alle contaminazioni ambientali, di solito, pensa alle grandi industrie.
«Anche a San Berillo, certo. Chi vive negli immobili fatiscenti è privo dei servizi minimi: un bagno, la possibilità di non convivere con l’immondizia. Queste sono contaminazioni ambientali, naturalmente, collegate ai contesti urbani più degradati. Partendo da questo ho iniziato a interessarmi ai contesti ambientali maggiormente compromessi, in Italia, e ho scelto di lavorare su Gela. Quello probabilmente è il caso più emblematico di devastazione economica e ambientale: la povertà, la disoccupazione, l’inquinamento delle matrici. Gli studi che dimostrano la maggiore incidenza di alcune malattie in quel territorio e, contemporaneamente, l’abbandono. Il petrolchimico ha portato a Gela ricchezza, un boom economico che si è tradotto in più consumismo e in investimenti edilizi imponenti, spesso abusivi, che l’hanno resa la capitale italiana dell’abusivismo. Non è un caso che i grandi insediamenti industriali che mostrano gravi criticità ambientali si trovino tutti in luoghi in cui la popolazione ha meno e, quindi, può combattere e ribellarsi meno. Eni ha portato denaro ai gelesi, in proporzioni infinitesime rispetto ai profitti che ha generato per sé. La popolazione ha fatto un salto avanti nella scala sociale, e poi è rimasta a gestire eredità tossiche che sono ancora difficili da individuare nel loro complesso».
È il tema dello sviluppo insostenibile, no?
«Ciò che Gela paga è ancora difficile da capire nella sua interezza. Con le bonifiche le aziende dovrebbero occuparsi di restituire qualcosa al territorio che hanno a lungo sfruttato. Ma le bonifiche, lo si vede immediatamente, sono sempre lente e molto puntuali. A fronte, invece, di eredità tossiche diffuse. È scientificamente provato che le attività economiche più inquinanti si installano dove le popolazioni hanno meno potere di dire di “no” e a Gela si vedono gli effetti del mito della modernità e dell’industrializzazione massiccia».
Pensando però all’altro petrolchimico siciliano, quello fra Priolo Gargallo, Augusta e Melilli, sembra che la consapevolezza della popolazione sia mediamente inferiore. Cioè, che ci sia ancora una difesa di quel modello di sfruttamento del territorio.
«Diciamo che Gela è più avanti. Eni ha drasticamente ridotto le sue attività e sono scomparse le leve che facevano sì che la popolazione non volesse vedere le cose. Nel Siracusano, per dirla banalmente, ancora le persone mangiano grazie al polo petrolchimico. A Gela dal 2014 questa cosa si è vaporizzata, il sogno è svanito, e la comunità gelese è rimasta disoccupata e intossicata. Mentre lavoravo lì, ho seguito parte di una causa intentata contro Eni da parte di alcuni residenti di Gela. Raccontavano l’ansia e i problemi di salute mentale che affrontavano dovendo vivere, tutti i giorni, accanto a un petrolchimico. La causa è stata rigettata e loro hanno dovuto pagare le spese legali. E io ho pensato che fosse assurdo. È difficilissimo che il cambiamento della relazione delle persone con il loro ambiente di vita venga riconosciuto come un fatto da un tribunale. Eppure è così. È l’evoluzione del discorso sul fatto che il personale è politico: il personale è scientifico e, in quanto tale, può essere dimostrato».
È per questo che lei è stata premiata per le ricerche scientifiche più coraggiose?
«Anche per questo, sì. Diciamo che devo il premio per il 70, 80 per cento alle ricerche che ho svolto in Sicilia».
Da quanti anni si trova in Canada? E di cosa si occupa lì, adesso?
«Sono qui da circa due anni e mezzo. Sono la coordinatrice di un progetto di ricerca su una periferia di Toronto, dove stiamo lavorando sull’ascolto delle esigenze e dei bisogni delle popolazioni migranti. Solo che qui li chiamiamo “new comers”. A Toronto il problema non è tanto quello del diritto alla casa, quanto dell’affordability, della possibilità di sostentarsi. La prima cosa che stiamo facendo è comprendere le loro esigenze nella vita di tutti i giorni e poi pensare a come rispondere ai bisogni di queste persone. Solo a quel punto si potrà invertire il sistema e pensare a dei piani per il clima, che oggi vengono pensati dai governi nazionali e sovranazionali, che possano invece venire dal basso. L’idea è che le azioni climatiche non debbano aumentare le disuguaglianze, e diventare cioè sostenibili solo per chi è più ricco, bensì ridurle. La lotta al cambiamento climatico è un tema di giustizia sociale, ma non è percepito come tale. È su questo che sto lavorando. Quando avrò finito, mi piacerebbe restituire all’Italia un po’ dei risultati di questa ricerca. Chissà...».