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Un selfie con Tito

Di Luigi Patitucci |

Qualche tempo addietro, mi convinsi dell’idea di poter lavorare all’ennesima Collana di scritti sul Design, scegliendo però di dar voce, con un format di 100 domande sul design odierno, ai grandi vecchi che hanno fatto la storia del design italiano.

Che poi, bisogna dirlo, coincide meravigliosamente con la storia del Design, per così dire, universale.

Si, scelsi di dar voce ad una costellazione di personaggi, i cui tratti che li accomunavano erano ascritti tutti in questa inesorabile urgenza creativa, che qualcuno chiama ‘fuoco sacro’, e cari alla mia persona perché innanzitutto  insolenti.

Si, insolenti, di quell’insolenza che si fa portatrice di sconosciute ed irresistibili traiettorie di innovazione, di progettualità, di grande coinvolgimento, capaci di rendere diverso, eccitante, seducente, il nostro sonnacchioso modus vivendi.

Scelsi il nome della collana: Dolls.

Si, bambole, come quelle sventole irresistibili, capaci di farti cambiare la vita con un solo sguardo.

Ci voleva un sottotitolo: Comedie Humaine de les Celebrities. DiviDesignerGuruArchistarMaestriMinistriNanideformiGiocolierieAcrobati.

Il sottotitolo era un chiaro riferimento, impregnato… inzuppato direi, di vis polemica, nei confronti dell’ex Ministro della Repubblica Renato Brunetta, che aveva presentato al Salone del Mobile di quell’anno, (con una mossa oculata, insieme al suo volume sulla Riforma della Pubblica Amministrazione!) una collezione di arredi denominata “TT”, per l’azienda Midj, in onore della sua fidanzata, la Titti, per l’appunto, oggi divenuta la Signora Brunetta, che era tutta sintonizzata sulle frequenze proprie delle produzioni del settore caratteristiche dell’era del ventennio fascista.

In qualche modo bisognava esorcizzare le brutture, e dunque creai la collana Dolls, che mi impegna ancora oggi, in questo dialogo perpetuo con i grandi vecchi, che io, al contrario della consuetudine diffusa, considero una grande risorsa per il nostro paese, anziché un peso, un costo sociale.

Qualcuno si sforzerà di capirlo, prima o poi.

Bisognava cominciare da qualcuno e, questo qualcuno lo conoscevo già sin dalla mia adolescenza, da quando ero uno studente per la maturità di Arte Applicata, perché era un mio grande riferimento, era un vero divo e, non se ne curava affatto.

Era Tito D’Emilio.

Tito, aveva ricevuto, da qualche mese, il Premio Compasso d’Oro alla carriera nel settore della distribuzione.

Il più antico, ambito e prestigioso riconoscimento della disciplina del Design, assegnato da una Giuria internazionale Adi, l’Associazione per il Disegno Industriale, allora presieduta dall’architetto Mario Bellini, che nel 2008 decideva di poter annoverare nel proprio Olimpo anche il mio amico Tito D’Emilio, con la seguente motivazione ufficiale:

“Autodidatta metodico e rigoroso, animato dalla passione per il bello e affascinato dall’innovazione, sino dalla fine degli anni ’60 ha saputo fare del suo negozio di Catania un punto di riferimento per il mercato italiano del design. Il suo lavoro caparbio di “mercante” coraggioso e divulgatore, portato avanti in condizioni geograficamente sfavorevoli, ha contribuito a far conoscere ed apprezzare le migliori aziende ed i migliori prodotti italiani e stranieri, assai prima che addivenissero alla notorietà”.

Un segnale forte, che il mondo del design, a mio avviso, voleva mandare alla categoria della distribuzione, importante anello di trasmissione della cultura propria della disciplina del design, ad un livello di diffusione elevato e concreto, espletato nella direzione di una utenza che, oggi più che mai, appare elegante e colta.

Un segnale che potesse mostrare a tutto il mondo una traiettoria, essenziale e benefica, dagli alti profili qualitativi d’esercizio, della preziosa attività di assistenza nelle scelte degli elementi costituenti della creazione del proprio scenario di vita domestico, quale miglior viatico per la produzione di una consapevolezza che, è già essa stessa espressione di cultura.

Sono tanti ed innumerevoli, gli episodi di vita, rari ed inestinguibili, venuti alla luce nei nostri incontri per la redazione del libro, ed hanno un’importanza ed un peso tale, da poterli collocare tutti all’interno del prezioso mosaico costituente la storia degli ultimi cinquanta anni del design italiano.

Il volume a tutt’oggi, non è stato ancora editato, ma il suo prezioso contributo è servito già a produrre notevoli entusiasmi, con il libro edito dai tipi di Lettera Ventidue, curato da Dario Russo, dal titolo: “Come un acquilone” *, espressione venuta fuori da una mia sollecitazione a Tito, su ciò che egli volesse essere, se fosse stato un oggetto.

Ne ricorderò qui uno soltanto.

In uno dei nostri incontri, sempre carichi di malia e di grande affabilità, di quella affabilità secca però, fatta di poche parole e di lunghi sguardi intensi e magnetici, chiesi al mio amico Tito D’Emilio:

Il consumo si autonomizza dallo scopo funzionale, del resto, chi potrebbe individuare una serie di bisogni obiettivi cui corrisponderebbero delle funzioni, ai giorni nostri? Possiamo parlare allora di consumo simbolico, dove è l’Arte a divenire il paravento principale, di questo sistema di apparenze. Sistema che, beninteso, oggi racchiude in un unico corpus, un unico simulacro, Arte, Moda e Design. Mi chiedo, quale possa essere la via di fuga per il mantenimento di una condizione qualitativa soddisfacente nei prodotti di design. Risiede nella fuga, appunto, dalla iper-brandizzazione, nel rifugio nel no-logo? ,…., altrimenti vi è IKEA:

“una spruzzata di dignitoso design spalmato su un sistema di oggetti a buon prezzo e di buona qualità“.” (Fulvio Carmagnola , “La fabbrica del desiderio”, Lupetti Editore, NdA).

Tito D’Emilio mi rispose:

“Io avrò sempre bisogno del mio letto.”

Ed io chiesi a lui:

“Un oggetto erotico?”

Tito D’Emilio:

“Il letto. Il letto nelle sue reali possibilità.”

E’ fu così che capii che quell’uomo, aveva vissuto in una preziosa, magica, assoluta e particolare simbiosi con gli elementi costituenti del mondo del Design per tutta la sua vita.

*tratto dal libro “Come un acquilone”, di Dario Russo, Lettera Ventidue

Dario Russo:

In un’intervista, Luigi Patitucci le chiede di descriversi con qualcosa (un progetto, un oggetto, un’architettura…), e lei afferma che le piacerebbe essere un aquilone. Mi domando allora: è forse un’allusione alla sua capacità di vedere le cose dall’alto, come se fosse appunto un aquilone e potesse guardare più lontano, anticipando i tempi, coraggiosamente?

Tito D’Emilio:

Sì, una “cumeta”, un aquilone: è un oggetto stupendo.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA