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Dalla Pennsylvania a Solarino per fare olioturismo, la nuova "esperienza" che piace agli stranieri

In Sicilia cresce l’interesse per il settore dell’olioturismo La scelta di Francesca Oliva produttrice di Solarino che da 10 anni ha lanciato questa formula.

Carmen Greco

02 Giugno 2025, 20:17

Dalla Pennsylvania a Solarino per fare olioturismo, la nuova "esperienza" che piace agli stranieri

Jason Messina ha quasi ottant’anni ed è la prima volta che dalla Pennsylvania mette piede in Sicilia con figli e nipoti. I suoi nonni erano di Palazzolo Acreide e prima di andare a caccia delle sue origini ha deciso di fare un passaggio in campagna per degustare l’olio extravergine. Giusy, invece, è originaria di Floridia, vive in Germania da quando era piccola e sta girando la Sicilia con l’amica tedesca Manuela. Tuffa il naso nel bicchiere blu e la memoria olfattiva risveglia tutti i profumi della campagna, «l’erba, il limone, le arance…». Arriva anche un gruppo di quattro vacanzieri di Singapore, anche loro hanno fatto una deviazione per degustare l’olio evo della Tonda iblea.
Hanno tutti scelto di dedicare un paio d’ore a fare olioturismo la nuova (almeno in Sicilia) frontiera delle “esperienze” in campo di curiosità agroalimentare. Un settore parallelo dell’inflazionato enoturismo che accusa però la sindrome del “cugino povero” visto il poco interesse degli italiani verso l’extravergine di qualità.


La conferma arriva da Francesca Oliva, produttrice appassionata e resistente di olio evo e Limoni Igp di Siracusa, fra Solarino e Floridia. Lei ha scommesso sull’olioturismo da poco più di dieci anni ed è lei, in prima persona, ad accogliere i visitatori, per portarli prima nel “giardino” di limoni, poi all’ombra di un ulivo centenario a raccontare loro che cos’è l’olio extravergine e soprattutto quale valore ci sia dietro un alimento millenario ancora in cerca di una “dignità” sul mercato.
Chi sono oggi gli olioturisti?
«Visitatori che arrivano qui autonomamente, viaggiatori che hanno organizzato il viaggio per conto loro, a volte su suggerimento di tour operator, e che cercano un’esperienza diversa. Per il turista straniero le distanze sono relative, se si trovano a Taormina non hanno paura a mettersi in macchina per fare chilometri, spesso succede che facciano scalo a Roma hanno solo cinque giorni per visitare la Sicilia e scelgono di venire a degustare l’olio anche rinunciando ai classici giri per trascorrere del tempo in campagna».
Una mappa delle nazionalità?
«Più del 60% sono americani, in questo momento ci sono tanti canadesi che stanno viaggiando verso l’Europa e l’Italia. Poi molti sudcoreani, giapponesi pochi, perché non parlano inglese… Diciamo che in un giorno la tavola diventa un crocevia attorno alla quale si ritrovano persone da tutto il mondo».
Tranne italiani e, men che meno, siciliani… Perché?
«Non c’è la curiosità di capire il prodotto, siamo rimasti indietro. Un po’ perché abbiamo poco potere d’acquisto rispetto al costo dell’olio di una certa qualità, un po’ perché gli italiani si accontentano e quindi a loro non interessa acculturarsi più di tanto».


Non sarà perché in Italia, in Sicilia, tutti producono olio e c’è sempre un cugino, uno zio, un amico che te lo vende a prezzi stracciati “solo per te”?
«La differenza è questa: se tu sei una persona curiosa, vai a cercare opportunità per imparare, per approfondire. Certo, ho avuto poche visite di spagnoli e greci, incide il fatto che quel prodotto sia nella loro cultura e, teoricamente, lo conoscono, però fra gli italiani c’è comunque meno propensione ad aprirsi in generale. Invece ci sono molte zone di produzione del vino e la gente va ad assaggiarlo comunque. La verità è che l’avventore italiano o siciliano non riconosce come un arricchimento il fatto di provare diversi olii su un piatto quando invece abbina vini diversi a cibi diversi».


È una questione culturale?
«Anche. Ma sono convinta che se io lo offrissi gratis non sarebbe comunque una cosa che viene percepita come un valore. Nei paesi che non producono olio, chi vuole comprare l’olio italiano ha voglia di capire. È un consumatore con un potere d’acquisto maggiore, vuole il meglio ed è disposto a pagare di più un prodotto che riconosce qualitativamente superiore. Quando chiedo loro dove comprano l’olio, quasi si vergognano. Mi rispondono “e dove mai lo devo comprare? Non c’è”. Sul mercato americano tendenzialmente si trova un prodotto più indifferenziato».

Oggi fare olioturismo è una necessità per un’azienda come la sua?
«Siamo piccoli, abbiamo 20 ettari di ulivi, dovremmo produrre 30mila litri annui ma non ci arriviamo. Dall’ultima molitura abbiamo ottenuto 15mila litri. Mio nonno trent’anni fa raccoglieva dopo i morti io a settembre, c’è il cambiamento climatico ma c’è anche stato un cambiamento di mentalità sul prodotto che qualitativamente è cresciuto».


Quali sono oggi le criticità per portare avanti un’azienda olivicola inSicilia?
«È difficile. Negli ultimi anni l’Italia ha perso posizioni sul mercato perché non riesci ad avere piena produzione, dipende dalle cultivar, ma anche dal caldo, dalla siccità, dagli impianti di irrigazione. Nelle zone montane, per esempio, non puoi irrigare perché non hai acqua. Un posto come Buccheri non produce, la Tonda iblea non ama le condizioni climatiche difficili».


Quindi è vero che l’olioturismo può rappresentare una valida voce di bilancio…

«È una scelta. Siccome fare agricoltura non ti premia, e secondo la contingenza internazionale dovresti piazzare il prodotto extravergine a un prezzo troppo basso per i costi di produzione, di raccolta e per il costo del lavoro che in Italia è elevato, la cosa giusta è ricavarsi un spazio di mercato che dia dignità al tuo prodotto e raccontarla questa dignità, anche facendo assaggiare una fetta di pane con l’olio, ricompensa in qualche modo gli sforzi di produzione».


Il futuro è un olio evo di nicchia?
«Dipende da quanto si tiene alla propria salute e quanto si voglia valorizzare il lavoro degli altri. Finora è la logica del produttore che è stata sbagliata. Consentire che l’olio evo così difficile da produrre, che fa parte della nostra storia, che riesce a mettere tutti d’accordo sulle sue proprietà salutistiche anche in quei paesi emergenti in cui il consumo degli olii raffinati è un problema, sia trattato da figlio di un dio minore è inconcepibile. Il “mi piace ma non lo voglio pagare” significa che probabilmente non s’è ancora capito il valore storico, antropologico e nutraceutico dell’olio evo. La sfida è proprio questa, farlo capire, partendo dal preservare la biodiversità dei nostri ulivi. Loro per quanti disastri possiamo fare noi umani, sopravviveranno, e solo loro sapranno come andrà a finire.