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Catania, trent’anni di e con Bianco: «Mi sentirò sempre “u sinnacu”…»

Di Andrea Lodato |

Uscire dal portone ed entrare nella storia. Direttamente. E’ questo il destino che tocca a Enzo Bianco. Uscire dal portone di Palazzo degli Elefanti per l’ultima volta da sindaco, e sapere che la sua vicenda umana e politica catanese, segna uno dei capitoli più importanti della storia di Catania. E là finisce, o finirà quando verranno scritte le pagine che riguardano 30 anni di vita di questa città. Piaccia o no. Faccia, e abbia fatto, più o meno simpatia questo avvocato, arrivato a 9 anni a Catania dalla provincia di Enna, con un ramo della famiglia che aveva radici nel Ragusano e uno in Puglia. Enzo Bianco, dunque.

Esce dal palazzo in una domenica d’estate, consegna le chiavi al giovane sindaco di centrodestra che lo ha battuto nelle urne, Salvo Pogliese. Anche il gioco delle stagioni deve avere un senso nella vita, nelle congiunzioni astrali, nelle combinazioni e negli eventi. Era un giorno d’estate del 1988, anche quando per la prima volta saltò fuori il nome di Bianco. Che qualcuno, niente meno che, voleva candidare a sindaco di Catania. Ma come, con tanti politici navigati ed esperti, autorevoli e potenti, poteva mai essere ‘sto ragazzotto il sindaco di una città difficile, complicata, malamente e maledettamente intrecciata? Ma lui da dove arrivava? E dove voleva andare?

Ecco Bianco, che in questa domenica d’estate torna indietro con i ricordi, all’ingresso per la prima volta di quel portone.

«Avevo 37 anni, la mia famiglia stava a Catania, che consideravo, ovviamente, la mia città, anche se ero andato a vivere e lavorare a Roma, dove ero amministratore delegato di una grande azienda, e dove facevo politica con il Partito Repubblicano. In vista delle elezioni amministrative di Catania nel partito si pose un problema di scelta di candidati, perché c’era una curiosa e odiosa tradizione per cui nel capoluogo etneo il Pri schierava personaggi di straordinario valore etico e morale, cito tra questi il prof. Mario Sipala e l’avvocato Salvatore Castorina Calì, ma nessuno di questi galantuomini veniva mai eletto, perché chi comandava a livello locale, sosteneva altri candidati, con altri interessi e, purtroppo, con profili assai meno nobili, spesso. Roma, così, sorprendendo tutti, decise di candidare me capolista a Catania. Una scommessa. E così, dico inspiegabilmente, venni eletto, in un Consiglio, tanto per intenderci, dove c’erano personaggi del calibro di Rino Nicolosi, Salvo Andò, Anna Finocchiaro, Guido Ziccone, Franco Cazzola, Paolo Berretta e tutta la pattuglia di Marco Panella».

Ed entra a Palazzo, Enzo Bianco. Ma se è una sorpresa inspiegabile come abbia fatto a battere i candidati sostenuti dal maggiorenti del Pri locale, il bello deve ancora venire. «Si deve scegliere il sindaco, io vengo designato dalla coalizione di centrosinistra ma ad opporsi è uno degli uomini potenti della Dc, Drago. Il quale dice a suoi: «Ma siete pazzi, se eleggiamo Bianco, quello resta sindaco per 15 anni».

E qui Bianco sorride, ride anzi. «Si sbagliava l’onorevole Drago, perché, a conti fatti, da allora ad oggi sono passati non 15 anni, ma esattamente il doppio».

Bianco diventa sindaco. Ma quella sindacatura, nata per una intuizione di Marco Pannella, tra l’altro, è anomala e tormentata, dura poco. In Consiglio lo fanno cadere ben presto, con i quattro voti di franchi tiratori che beccarono per “tradire” 60 milioni a testa. Ma non finisce qui. «Anzi, è qui che nasce la prima esperienza, se vogliamo, di governo di solidarietà nazionale, con la mia elezione votata dalla Dc al Pci a Pannella».

Che esperienza fu quella? Anche considerato che le future fortune politiche di Bianco affondano le radici in quella sindacatura? Bianco non ha dubbi. «Fu una straordinaria esperienza di condivisione per la prima volta dell’amministrazione tra un sindaco e i cittadini. I catanesi mi riconoscevano, mi fermavano per strada, chiedevano interventi nei quartieri, nelle strade, per le scuole. Si cominciavano a fidare del sindaco, come se mi avessero eletto e scelto loro. Anticipammo, di fatto, l’elezione diretta del sindaco. Chiusi al traffico, di fatto, via Etnea avviando una piccola rivoluzione culturale, varammo i velobus, cominciammo le demolizioni di edifici abusivi, dalle baracche in cemento che erano state fatte a piazza Carlo Alberto, alle case dell’oasi del Simeto. Scoprii un giorno che prima di allora le ordinanze di demolizione venivano sì firmate dai sindaci, ma mai eseguite. I dirigenti le facevano firmare per far scaricare all’amministrazione ogni responsabilità. Poi si perdevano. Così nominai un Responsabile unico del procedimento e gli attribuii poteri totali: se le demolizioni si facevano era merito suo, se no ne rispondeva. E, da allora quel che si firmava si faceva. Fu un passo importante verso il ripristino della legalità».

Ma cadde quella Giunta, anche se la città sembrava essersi innamorata dell’idea che potesse esserci un sindaco che ci metteva la faccia, al punto che il 17 novembre del 1989… «Beh, incredibile. Scesero in campo gli studenti, anche giovanissimi, con striscioni e slogan con cui chiedevano che restassi sindaco. Che emozione».

Bianco non resta sindaco. Ha il tempo, da quel momento, di fare il deputato regionale e prendere 30 mila voti, il deputato nazionale e prenderne 48 mila (cosa che fece infuriare il grande Spadolini, che a Milano di voti ne aveva presi soltanto 45 mila). Nel 1993 si vota per la prima volta con l’elezione diretta del sindaco. E Bianco è là, ci mancherebbe. Ma non è solo.

«C’era Claudio Fava con la Rete, con cui andai al ballottaggio, ma il centro e la destra erano scesi in campo con personaggi di primo piano come Scavone e Trantino. Vinsi perché la città mi sentiva come il suo sindaco e una città tradizionalmente di destra come Catania in quel momento coltivava una grande speranza di cambiamento».

Catania cambiò. Lo hanno sempre riconosciuto anche gli avversari politici di Bianco. Fu il tempo di una rivoluzione culturale e sociale che potremmo anche tradurre, in estrema sintesi e con riferimenti oggi molto simbolici, come la rivoluzione dei fiori. Bianco sindaco dei fiori, insomma, che molti ci hanno anche ironizzato su, ma che ha un senso assai più compiuto.

«Mettemmo fiori in molte parti della città, da via Giuffrida a piazza Federico di Svevia, al castello Ursino. All’inizio qualche pianta sparì, portata via, ma presto la gente capì che quei fiori abbellivano e coloravano la loro città. Dalla piazza del castello, dove i funzionari del Comune mi avevano suggerito di realizzare una cancellata per evitare i furti, non fu portato via manco un fiore. Quando chiesi un giorno ad un gruppo di cittadini seduti nella piazza come era stato possibile, mi risposero: “Lei nni trattau di cristiani e nuatri nni cumputtamu di cristiani”. Bellissimo sentirselo dire. La rivoluzione dei fiori è stata questa, ma mi piace usare questo simbolo anche parlando della nascita della movida, del recupero del centro storico, dei caffè concerto, dell’esplosione grazie a questi fermenti di fenomeni come Carmen Consoli, i Denovo, Mario Venuti. E non posso non ricordare un personaggio straordinario come Francesco Virlinzi, che portò i Rem a Palazzo degli Elefanti e allo stadio di Catania. E il grado di civiltà e di straordinaria integrazione sociale maturato con gli eventi di Capodanno. Quanta gente ordinata in piazza, che veniva anche dai quartieri periferici, a vedere Dalla o gli spettacoli di Valerio Festi».

La prima sindacatura, la seconda proseguimento naturale nel 1997. Poi il Viminale, nel dicembre del 1999. E la gente un po’ se la prese. «Andai a fare il ministro dell’Interno, ruolo importante per il Paese ma, direi, che consentì di fare cose importanti per la sicurezza anche della mia città. Ed è vero che un po’ i catanesi se la presero, ma è anche vero che nel 2013 mi vollero di nuovo sindaco».

E qui Bianco, dopo avere raccontato quel che lasciò, parla di quel che trovò dopo le amministrazioni che seguirono. Ma lo sappiamo già, questione di bilanci, conti, macchina amministrativa impallata. Rientreremmo nella bagarre politica, chiudiamo, invece, con il presente l’album dei ricordi. Nel 1988 Giulia non era ancora nata. Oggi ha 27 anni. E’ la figlia di Bianco. Che dice oggi del padre e del sindaco? «Giulia ha sempre vissuto con discrezione il mio ruolo politico, con grande alterità. Però, devo confessare, nell’ultima campagna mi è stata vicina, tanto da venire anche a due appuntamenti elettorali. Aveva capito che mi serviva un conforto speciale, forse. E un grosso sostegno me lo ha dato in questi anni anche la mia compagna, Amanda, che ha seguito da vicino anche la difficile campagna elettorale. Brava e, direi, soprattutto armata di grande pazienza».

Vero, perché chi è stato accanto ad un personaggio complesso e con una carica infinita come Bianco, di pazienza e di forza ne ha sempre dovuta avere tanta. E ora? «Chapeau a Salvo Pogliese, ha vinto, bravo. Farò il consigliere d’opposizione, ovvio. Resterò, come mi hanno chiesto tanti sindaci, a fare il presidente del Consiglio nazionale dell’Anci e a guidare la delegazione italiana Bruxelles. Ho parlato anche con Paolo Gentiloni, c’è un partito da rigenerare, anche. Ma Catania non la mollerò mica, no. Certo, da qualche giorno la vivo in maniera diversa. Vedo auto parcheggiate in doppia fila, mi viene la tentazione di scendere, chiamare il comandante dei vigili urbani. Poi mi fermo e rifletto sul fatto che adesso tocca ad altri. E allora ridivento un semplice cittadino, anche se mi arrabbio lo stesso, ovviamente».

In questa domenica d’estate Bianco esce dal portone del Palazzo, ultima da sindaco. Smaltita la tensione, finita la contesa, è rilassato, dimagrito, disteso. Forse persino sereno. Ultima domanda, ultima battuta: Bianco, allora, ma smetterà mai davvero di sentirsi “u sinnacu” di Catania?

«Ma sì, certo, anche se, dentro di me… La storia è stata così lunga, così bella, così intensa. Insomma sì, ma un po’, un po’. Beh, si rassegnino, un po’ mi sentirò sempre straordinariamente legato a questa città, Da “sinnacu”, sì».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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