Chi ha paura di Micio Tempio?
Dopo due secoli, il poeta catanese scandalizza ancora i benpensanti. Oltre l’eros una sublime poesia
Conquistare una posizione nel campo minato - letterario, si intende - delle “monache disperate” non è facile. Ci ha provato Micio Tempio e, con la penna del fuoriclasse, è salito sul podio, tra i primi. Ma nessuno lo sa! Perché è una vittoria nascosta da meschini paraventi, cacciata nel pozzo “rosso-vergogna” del porno, insudiciata da menti sudicie. Una vittoria difficile per chi deve misurarsi con “monache disperate” immortalate da Giovanni Boccaccio, Giorgio Baffo, Alessandro Manzoni, Gioacchino Belli, Carlo Porta… Sino alle secentesche “Lettere di una monaca portoghese”, testo di eterno successo editoriale che ha avuto anche i disegni, in rosa carne e nero monacale, di Milo Manara.
Tempio è la “penna de Dios”. Attraversa, dribblando tutti, il campo letterario e va in rete. Segna con quell’asciutto dramma (perché di dramma si tratta) “La monica dispirata”. Lo stadio non urla, attorno a lui tutto è silenzio. A leggere e rileggere quei 100 versi, conosciuti sottobanco a scuola, c’è carne e sangue, c’è l’infinito dolore di chi è costretta alla reclusione senza sentire vocazione, c’è il buio della solitudine, l’estasi dell’autoerotismo, e del post-erotismo, che trova posto accanto a tante estasi del Barocco che ornano, come indiscutibili capolavori, chiese e musei.
Drammatica. Così come fu interpretata nello spettacolo “Frammenti di un discorso amoroso” (raccolta di poesie tempiane, curata da chi scrive) proposto due anni fa all’Auditorium “Giancarlo De Carlo” (produzione Teatro Massimo, Università di Catania e Centro di studi filologici e linguistici siciliani) con la regìa di Camillo Sanguedolce, le musiche di Luciano Maria Serra e l’interpretazione di Carmela Buffa, Barbara Gallo, Ketty Gorvernali. Uno spettacolo che non riesce a trovare - sarà un caso? - spazio al di fuori delle mura del Monastero dei Benedettini. Eppure Tempio attestazioni di gran prestigio ne ha raccolte non poche.
A partire da Leonardo Sciascia che al catanese Tempio, al più geniale poeta siciliano (e Meli non ce ne voglia!), dedicò uno di quegli scritti capaci di rivelare il nocciolo nascosto della vera arte (in “Pirandello e la Sicilia”, Sciascia editore). L’autore de “Il giorno della civetta” passeggia nel viale catanese degli uomini illustri dove resiste il busto di Micio Tempio, con il suo naso severo - capace di restare indenne ai vandali - il gilet leggermente sbottonato sotto una giacca senza fronzoli. E’ lui, il poeta semplice come sa esserlo una lama, ironico come sapeva essere un tempo Catania, rigoroso come solo sa essere chi dà rime all’intransigenza etica, fastidiosa ancor oggi. Sciascia ne esalta la bellezza delle immagini poetiche e l’odore di morte che emanano i suoi amplessi, paragonandolo a Henry Miller (“Tropico del cancro”).
Ma allora perché trovare i suoi libri è impossibile? Recitare i suoi versi incontra ostacoli e censure? Insomma, chi ha paura di Micio Tempio? Il professore Antonio Di Grado, Direttore della Fondazione Sciascia, non ha dubbi: «Trent’anni fa c’era ancora la censura ministeriale, come ai tempi di Andreotti che censurava Brancati, Totò e perfino Shakespeare. A bruciare negli ultimi fuochi dell’Inquisizione governativa fu nel 1991 il povero Micio Tempio dello spettacolo allo Stabile “Vita, miseria e dissolutezze di Micio Tempio, poeta”. Bandito dalle storie letterarie, lui che del Settecento fu il poeta più vivo e verace, gli veniva negata anche la scena teatrale, a lui, a mastru Staci, all’immortale Sciancata della Carestia, che tra parentesi è l’unica opera letteraria italiana sulla Rivoluzione».
Ma chi erano, chi sono i nemici di Tempio e della sua plebe scostumata, chi erano e chi sono gli inquisitori, i bacchettoni di ieri e di oggi? «No, non solo i bacchettoni e i baciapile: è una borghesia ottusa che stende un velo d’ipocrisia sulle proprie magagne, è un’accademia per troppo tempo pigra e miope, che dagli audaci e vitali spropositi a lungo si è difesa arroccandosi sub tegmine fagi d’una paciosa Arcadia. Ma per chi non patisce “di sintòmi e di stinnicchi” Tempio c’è, pronto a farci scorrere nelle vene sangue nuovo, beffardo e sovversivo».
Quel Tempio in scena, nel 1991 allo Stabile di Catania, era Tuccio Musumeci: «Posso dirlo, Micio Tempio sono io! Insomma, sono stato il primo - e l’unico - a vestirne i panni. La sorpresa più grande fu scoprire che pochissimi conoscevano l’arte e la vita di Tempio. Tutti pensavano che fosse solo il poeta erotico. In realtà è stato un autore delicato, che ha amato in modo totale la sua città mostrandola, con dolore, come un luogo colmo di erbacce spinose. Poi la sua vita: dolorosa, segnata dalla morte della moglie, della figlioletta. Sì, devo dire che per il pubblico fu una scoperta, oltre a un divertimento. Tant’è che lo spettacolo ebbe un grandissimo successo. Una cosa è certa: i veri catanesi amano Tempio».
Certamente amato, ma per nulla valorizzato. Seppur non sono mancati gioielli sul palcoscenico. Per esempio con Nino Romeo, attore, regista e raffinato drammaturgo: «Ho rappresentato “Lu mastru Staci” di Tempio circa quarant’anni fa; e poi, negli anni, in allestimenti diversi tra loro. Spettatori divertiti e stupiti di fronte alle iperboli tempiane. Ho proposto con Graziana Maniscalco e il prezioso apporto di Antonio Di Grado, la lettura interpretativa e critica dei primi sei Canti de “La Carestia'”. Spettatori a bocca aperta di fronte a questa opera monumentale. Nell’uno e nell’altro caso, non ho riscontrato paura, né avversione. Alcuni decenni fa, sì. Tempio è stato un rivoluzionario: per le sue concezioni estetiche, politiche, sociali. E, forse, anche oggi qualcuno potrebbe manifestare avversione e paura».
Anche il professore Fernando Gioviale, già ordinario di Letteratura italiana all’Università di Catania, non ha dubbi: «L’eros esplicito sino alla genitalità e alla pornografia - che in sé nulla ha di negativo, e anzi una storia anche gloriosa - disturba pur sempre i benpensanti. Quanto al poeta sociale, “La Carestia” in primis, la satira radicale continua a essere sgradita ai poteri occhiuti e miopi insieme; e si fatica ad accettare il dialetto nel genere “serio”».
Un meraviglioso dialetto siciliano, oggi in fase di perdita, che fa de “La Carestia” la “Divina Commedia” catanese. I suoi versi stendono un tappeto di gioia e disperazione, di eros e dolore. L’elenco (anche tra scritti a lui attribuiti) delle perle è lungo: “La minata degli dei”, “Lu mastru Staci”, “L'odi supra l’ignuranza”, “La maldicenza sconfitta”, “Lu veru piaciri”, “La 'Mbrugghereidi”, “La scerra di li numi”, “Lu cuntrastu mauru”, “Lu jaci in pritisa”, “Li pauni e li nuzzi”… Versi che, ricamati insieme, dipingono il più grande, meraviglioso, vivo affresco che Catania abbia mai avuto. No! Non è possibile staccare i versi di Tempio dalla sua città: dai fantasmi del post-terremoto, dai turbamenti del tardo barocco, dalla paura di non risvegliarsi alla voglia di morire tra le braccia di una prostituta. Micio Tempio è inchiodato alla Civita e la sua croce è Catania!
Ma c’è un po’ di luce nel buio. Il professore Giuseppe Mirabella, filologo per studi e vocazione, ha curato una preziosa edizione critica de “Le Favole” di Tempio lavorando sui testi originale. Una pubblicazione che non ha trovato editori (nemmeno tra chi vanta collane di letteratura siciliana) e quindi è nata un’edizione per i tipi di Amazon, acquistabile online.
«Ho voluto - dice Mirabella con giusta soddisfazione - sondare la dimensione problematica di un lavoro filologico sulle opere tempiane e restituire ai lettori contemporanei, almeno per le “Favole”, una lettura più chiara e aggiornata. Il volume comprende pure una disamina dello stato dell’arte e spero apra un percorso di studi. Eppure la tipologia della produzione tempiana mostra come non vi siano alternative a un progetto di edizione critica integrale. Sarebbe un sogno leggere “La Carestia”, i bozzetti teatrali, ma anche i monologhi satirici e morali finalmente in una veste accessibile a molti e ridare dignità all’opera di un grande autore siciliano».
A chi fa paura tutto ciò? «Forse a chi non vuole uscire da una zona di conforto interpretativa, ricca di aneddoti e povera di memoria. Ribaltando la domanda: in una città, provincia di impero in cui ci si interroga sul proprio destino di terra di confine, chi guadagnerebbe dalla restituzione al mondo di un’opera unica e sorprendente come lo è la produzione di Domenico Tempio?».
E allora riscaldiamoci al fuoco della creatività e della ricerca sempre vivo al Disum, il Dipartimento di Scienze umanistiche dell’Università di Catania. E’ il professore Mario Pagano - Ordinario di Filologia e linguistica romanza - che ci risponde con il suo consueto sorriso ironico e rassicurante: «Il Centro di studi filologici e linguistici siciliani ha dato vita, tra le sue tante, alla collana “Opere di Domenico Tempio”, diretta da me e da Antonio Di Silvestro. Vogliamo offrire agli studiosi e ai non specialisti, edizioni critiche affidabili. Anche un modo per accreditare tra i benpensanti quello che, erroneamente, viene considerato un poeta porcaccione. Le prime due edizioni, ma io auspicherei tre, se Giuseppe Mirabella potesse rimettere mano alla sua importante edizione de “Li Favuli”, saranno quelle di “Lu Jaci in pretisa”, a cura di Giuseppe Canzoneri, e “La scerra di li Numi” a cura di Giulia Barbagallo, entrambi allievi, così come Mirabella, dell’Università di Catania». Si va in porto.
Dovremmo interrogarci maggiormente sulla paura, che vive oggi come insopportabile censura, di Tempio. Una neo-inquisizione in un mondo sommerso da cinema, tv e social che della volgarità spesso fanno bandiera. Eppure vive ancora il terrore di quegli amplessi a cui Micio dà vita, come sculture del Bernini. Immagini “paurose” sbalzate con rime veloci, con pennellate forti, simboli di un conflitto generale, totale della natura contro l’uomo, di tutti contro tutti in un modo, seppur per pochi versi e interminabili secondi, indemoniato.