Le confessioni di un boss nella sentenza Camaleonte
La Corte d'Appello ritiene il contributo di Mario Strano però "parziale e limitato".
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L’operazione della polizia che nel 2020 rase al suo le tre anime del clan Cappello fu chiamata Camaleonte per la figura criminale di Mario Strano, “acchiana e scinni”. Nomignolo che deriva dal suo passato di rapinatore - soprattutto di banche - in trasferta- Il boss era riuscito, dopo l’espiazione della condanna in Revenge, a ricostruire i suoi affari illeciti con un gruppo quasi privato, costituito anche da parenti anche acquisiti, che agiva in alleanza seppur autonomamente con la cosca fondata dall’ergastolano Turi Cappello. Anche se Strano non ha mai accettato di essere definito un cappellotto. E nemmeno un carateddu (nickname mafioso dei Bonaccorsi). «Chi fa parte di Cosa nostra resta in Cosa nostra», disse alle pm Antonella Barrera e Tiziana Laudani qualche giorno dopo essere stato arrestato. Ma quelle dichiarazioni non hanno inciso sul peso della sua pena. Anche se in Appello una limatura al ribasso c’è stata: 16 anni di reclusione.
La Corte d’Appello ha depositato le motivazioni. Questo «contribuito» dell’imputato i giudici di secondo grado nella sentenza lo definiscono «parziale e limitato».
«Strano è stato - scrive la Corte - oltremodo reticente con riferimento alle posizioni dei suoi più vicini familiari, la moglie Anna Russo, le figlie Paola e Concetta e la cognata Giuseppa Russo, rispetto alle quali ha tentato di sminuire se non addirittura elidere qualsiasi responsabilità». Ma le prove lo hanno smentito e in alcuni casi addirittura messo con le spalle al mura. Infatti è stato «costretto ad ammettere - argomentano i magistrati dell’appello - che la moglie coimputata sapeva che i soldi provenivano dal traffico di stupefacenti». Ha negato fino allo sfinimento il coinvolgimento della figlia Concetta: «Mia figlia non è associata e non partecipava al traffico». Ma anche stavolta le emergenze processuali lo hanno costretto in un angolo: e ha dovuto «ammettere che era andata in Albania e che parlava di fumo e di altri associati nelle intercettazioni».
Strano era quindi al vertice del gruppo mafioso. «Le parziali ammissioni ne confermavano il ruolo apicale all'interno del sodalizio collegato a mercati esteri per il traffico di droga». Si parlava di collegamenti con l’Isola di Malta. Il boss di Monte Po nella sostanza non dice molte cose. Parla di «dinamiche associative passate per le quali era stato già condannato in via definitiva». E inoltre «ha negato contrariamente al narrato dei collaboratori di giustizia di essere transitato nel clan Cappello». Per Strano l’accordo con Iano Lo Giudice e Orazio Privitera significava la creazioni di una terza famiglia di Cosa nostra. Ma per i giudici era invece una costola dei Cappello.