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Catania, il “sistema delle 3 carte” per frodare all’erario 220 milioni

Di Vittorio Romano |

CATANIA – Nella lunga ordinanza, il giudice per le indagini preliminari lo ha definito «il diabolico sistema delle tre carte», in grado di garantire a diversi gruppi familiari imprenditoriali la sottrazione al pagamento di un complessivo volume di imposte di oltre 220 milioni di euro e la contestuale elusione di procedure esecutive e concorsuali. «In pratica – ha detto il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro, che ha coordinato le indagini svolte dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza etnea – le aziende che avevano dei deficit patrimoniali (squilibri finanziari, grossi debiti erariali) chiedevano l’intervento dello studio Pogliese (prima fase). A quel punto si metteva in moto il “sistema”: la società originaria veniva messa in liquidazione e nominato un liquidatore di comodo (seconda fase); successivamente veniva attivata una società – nuova o preesistente – con lo stesso oggetto sociale, la stessa amministrazione di fatto e proprietà, la stessa sede, la stessa forza lavoro e gli stessi clienti e fornitori principali» (terza fase).  L’ultima fase, ha aggiunto Zuccaro, «prevedeva la chiusura della vecchia azienda che aveva debiti con il fisco, la liquidazione e la cancellazione dal registro delle imprese. I debiti erariali e previdenziali restavano dunque definitivamente insoluti».  Tutto questo consentiva ai gruppi imprenditoriali indagati «di continuare a operare nel mercato in costante dispregio degli obblighi di legge, frodando il Fisco, gli enti assistenziali e quelli previdenziali, arrecando danni economici alle imprese concorrenti che operavano nel medesimo segmento commerciale».

Così è stata illustrata ieri mattina in Procura l’operazione “Pupi di pezza”, che ha portato i finanzieri del Comando provinciale di Catania a dare esecuzione a un’ordinanza di misure cautelari emessa dal gip nei confronti di 11 persone (delle quali 9 agli arresti domiciliari e 2 destinatarie di interdittive dell’esercizio di imprese) per la perpetrazione sistematica di bancarotte fraudolente (patrimoniali e documentali) e reati tributari (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte) anche in forma associata, nonché delitti di favoreggiamento personale e reale. Con il medesimo provvedimento è stato disposto il sequestro preventivo diretto di 4 marchi registrati e 4 complessi aziendali per un valore complessivo di circa 11 milioni di euro, tutti oggetto di condotte distrattive.

Secondo gli inquirenti, a orchestrare e scandire le fasi del circuito criminale era lo studio associato Pogliese, che assumeva il ruolo di “regista” del sistema illecito attraverso l’opera diretta del commercialista Antonio Pogliese, 74 anni, e di alcuni suoi associati, Michele Catania, 53 anni, e Salvatore Pennisi, 46, i quali, avvalendosi di Salvatore Virgillito, 66 (tutti e quattro sono agli arresti domiciliari), «costituivano un’associazione a delinquere (almeno dal 2013) dedita a una serie indeterminata di condotte delittuose in materia societaria, fallimentare e fiscale».

L’indagine delle Fiamme Gialle etnee è nata dal costante monitoraggio delle posizioni di contribuenti destinatari di ingenti cartelle esattoriali che avviano la procedura di liquidazione affidando la stessa a “prestanome”, così da escludere gli effettivi amministratori da ogni responsabilità penale e civile con l’unica finalità di continuare l’attività d’impresa attraverso una differente, solo in apparenza, società commerciale. L’attività svolta dagli specialisti del Nucleo di polizia economico-finanziaria s’è avvalsa di intercettazioni telefoniche e ambientali, accertamenti bancari e acquisizioni documentali presso enti pubblici.

Agli arresti domiciliari, oltre ai tre commercialisti e a Salvatore Virgillito, soggetto gestore del “prestanome”, sono finiti anche 5 amministratori di società: Antonino Grasso, 54 anni, Giuseppe Andrea Grasso, 51, Michele Grasso, 58, Concetta Galifi, 39, e Rosario Patti, 79. Per due amministratori di società commerciali disposte invece interdittive dell’esercizio d’impresa per un anno: Alfio Sciacca, 67 anni, e Nunziata Conti, 65. Procura e guardia di finanza stanno indagando «anche su altre società – hanno detto ieri gli investigatori – che potrebbero essere “entrate” in questo perverso sistema».

«Il fittizio liquidatore – ha spiegato il comandante provinciale della finanza, gen. Quintavalle Cecere – era gestito da Salvatore Virgillito, che rappresentava l’anello di congiunzione tra i reali amministratori delle società decotte, il prestanome e lo studio associato Pogliese. Emblematiche sono diverse conversazioni telefoniche intercettate nelle quali Virgillito lamentava con i professionisti dello studio il mancato versamento delle “paghe” mensili (circa 400 euro) garantite al liquidatore di comodo dai reali amministratori delle società commerciali truffaldine».

Il liquidatore non era altro che il figlio del Virgillito, un giovane disabile che non risulta indagato «perché utilizzato come una “testa di legno”, assolutamente all’oscuro di quello che faceva – ha detto il comandante Quintavalle Cecere – tanto che in un’intercettazione viene definito “pupo di pezza”». Espressione che ha ispirato magistrati e finanzieri nel dare il nome all’operazione.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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