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La tentata estorsione al colosso delle spedizioni Brt: i colloqui in carcere tra padre e figlio

I dialoghi sono quelli tra Giuseppe Intelisano e il figlio Filippo nel carcere di Sulmona

Laura Distefano

16 Aprile 2025, 20:25

«Dimmi una cosa, per quel fatto: come è la storia?». Parlava così, lo scorso dicembre, Giuseppe Intelisano con il figlio Filippo durante un colloquio nel carcere di Sulmona, in Abbruzzo. La “storia” a cui fa riferimento è il contratto che l’azienda di facchinaggio Gifra aveva con la ditta di spedizioni Brt. L’appalto del valore di 3 milioni di euro però, l’anno scorso, non è stato rinnovato. E questo avrebbe mandato su tutte le furie Intelisano junior, che l’anno scorso è stato arrestato per evasione fiscale e bancarotta nell’ambito di un’inchiesta coordinata dalla procura europea. Per quelle accuse l’imprenditore sta affrontando l’udienza preliminare a Catania davanti al gup Luca Lorenzetti.

Intelisano, ieri, è stato arrestato assieme ad altri quattro indagati, tutti parenti, accusati di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. Cosa c’entra la mafia? Presto detto: Pippo Intelisano è uno storico boss del clan Santapaola-Ercolano di Catania, ma è detenuto da quasi 30 anni. La procura ha chiesto anche per lui la misura ma la gip Marina Rizza ha ritenuto non vi fossero le esigenze cautelari.

«Sono entrati questi nuovi. Lo abbiamo saputo una settima prima, dieci giorni prima», raccontava ancora Filippo al padre ergastolano spiegandogli del subentro di un’altra ditta al loro posto. Per gli Intelisano la scelta non sarebbe stata fatta dal proprietario in quanto la società era sotto amministrazione controllata.

L’indagine è partita dalla denuncia di un referente della Brt che sarebbe stato pesantemente minacciato da Intelisano e dagli altri indagati affinché l’appalto tornasse nelle loro mani, oppure gli fosse garantita «una buonuscita» congrua e anche qualche lavoro fuori da Catania. Il manager sarebbe stato agganciato con la scusa di un caffè e poi portato a casa di Filippo Intelisano che all’epoca era ai domiciliari.

I poliziotti della squadra mobile di Catania, coordinati dalla pm Rosaria Molè, hanno messo assieme i pezzi del puzzle anche grazie alle intercettazioni. E così hanno scoperto che Virgilio Papotto, rappresentante della ditta di facchinaggio anche se non ne era il formale intestatario, sarebbe andato nella sede della società di corrieri paventando un «fermo dei mezzi» e dei «fornitori» se non fossero state accettate le loro richieste.

«La vicenda è molto complessa e vi sono dei profili che devono essere valutati anche perché il caso nasce da contratti esistenti, legittimi e di valore di qualche milione di euro, per cui parliamo di rapporti di lavoro leciti. Siamo davanti alla revoca di un contratto molto importante - afferma l'avvocato Francesco Marchese, difensore degli indagati - per dei motivi che si desumono dal contesto dell'ordinanza partivano da un presupposto falso e cioè che questa società di facchinaggio avesse a che fare con la mafia».
Domani sono programmati gli interrogatori di garanzia davanti alla gip.