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Il “bottone” per bypassare le centraline delle macchine: «L’ho pagato 1.100 euro»

Nelle motivazioni del gup la trattativa per acquistare il dispositivo usato per rubare le auto

Laura Distefano

30 Aprile 2025, 15:51

Furto di auto

Furto di auto

Lo chiamano “il bottone”: è il sofisticato dispositivo usato dalle gang di topi per bypassare le centraline delle macchine da rubare. Il particolare emerge nelle motivazioni della sentenza emessa dalla gup Chiara Di Dio Datola a chiusura del processo abbreviato “Carback”, figlio dell'inchiesta dei carabinieri che ha smantellato un'organizzazione specializzata in furti di auto per ottenere il pagamento dei “cavalli di ritorno” dai proprietari. Se il tentativo di versamento del pizzo per la restituzione della vettura non andava a buon fine, l’automobile (dopo la regola dell’attesa dei tre giorni) veniva smantellata e i ricambi “piazzati” nel mercato nero dei ricettatori. Un business illecito che fruttava parecchio considerando che la banda era disposta a investire un bel gruzzoletto in tecnologia per arrivare a centrare l'obiettivo.

I fornitori del “bottone” erano dei personaggi campani. I napoletani, in effetti, sono sempre stati tra i più produttivi nella tecnologia ad uso criminale. Gli investigatori hanno seguito in diretta anche trattative commerciali per l'acquisto: Salvatore Tropea, uno degli imputati per cui si è proceduto separatamente nel troncone ordinario, il 14 novembre 2020 dialogava con una persona dallo spiccato accento campano e cercava di contrattare sul prezzo. E per convincerlo, probabilmente, ad applicare uno sconto, gli diceva che lo aveva comprato (forse dalla concorrenza) al prezzo di 1.100 euro. Un costo non certo economico.

Che l'uso del “bottone” fosse il “metodo collaudato” dall'organizzazione criminale si evince da diverse intercettazioni che sono citate nelle oltre 400 pagine di sentenza della gup.

Al dispositivo si fa riferimento in una conversazione tra Christian Riccio e Gabriele Pappalardo. Il primo raccontava al secondo di essere stato sottoposto a un controllo da parte dei “falchi” che l'avevano sorpreso mentre faceva il pieno all'area di servizio. Riccio si chiedeva come fossero riusciti gli “sbirri” a incastrarlo. Pappalardo ipotizzava un possibile monitoraggio della sua “X” facendo riferimento al fatto che due giorni prima «aveva salito» una Panda (slang per dire che l'aveva rubata) e, preoccupato, ha chiesto a Riccio se la polizia giudiziaria gli avesse trovato «il bottone». La risposta è stata «no». Salvatore Tropea (quello della trattativa per comprare il “bottone”) faceva riferimento al dispositivo campano quando indicava Riccio come il topo che aveva rubato una vettura che lui stava cercando di rintracciare: «… Lui ha il coso per fare i cosi… capito!… il bottone».

Un filone dell’inchiesta riguardava i cugini Salvatore Giuffrida e Santo Tricomi, il primo è ritenuto esponente del clan Cappello mentre il secondo della cosca dei cursoti-milanesi. Il gup ha ritenuto che il compendio probatorio provi l’appartenenza di Giuffrida alla famiglia mafiosa dei Cappello, essendone «dichiarata l’affiliazione in più conversazioni» intercettate. Non può dirsi lo stesso invece per Tricomi: la giudice ha infatti valutato che gli elementi offerti nel processo non forniscano la «prova certa» della sua appartenenza alla criminalità organizzata e per questo motivo è stato assolto dal reato di associazione mafiosa.