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«E piripìm-piripàm…», quel viaggio nella nuvola magica di Tony Zermo

Di Mario Barresi |

Riproponiamo il colloquio fra Tony Zermo e Mario Barresi pubblicato su La Sicilia il 15 marzo 2020 nell’inserto in occasione del 75° anniversario del nostro giornale.


Puntualissimo. Così come ha fatto per molto più di mezzo secolo, è il primo ad arrivare in redazione. Anche stavolta, da “intervistato”. Con un affettuoso sorriso di perdono per l’“intervistatore” in tremendo ritardo. «No, non venire tu a casa mia. Ci vediamo ’o giunnali».

E Tony Zermo, classe di ferro 1931, giunge scortato da Carlotta, moglie deliziosa e inseparabile, violando per un’ora la consegna della prudenza. «Nessun reportage – confessa lo storico inviato de La Sicilia – renderebbe la sensazione negativa che ho di questi giorni, più di un diario di come si vive tappati in casa. Un tempo sospeso: non sai cosa fare, con chi parlare. Puoi leggere, metterti a scrivere. Ma non è la stessa cosa di essere al giornale, sul campo. State facendo un ottimo lavoro, un resoconto completo di tutto quello che succede nel mondo, in Italia e in Sicilia. Io mi sento ancora uno di voi. Ma voi giovani, anche dopo questo coronavirus, avrete una vita davanti. Noi abbiamo pochi anni. Per me è un tempo rubato, strappato. Sai che non lo recupererai più».

«E piripìm-piripàm». È il suo refrain di sempre. Un intercalare, un modo per chiudere la frase quando ci sono troppe cose da spiegare, per dispensare leggerezza anche nei momenti più pesanti. In redazione è stato un ritornello, quasi una colonna sonora per generazione di colleghi. E dire che «la mia avventura al giornale comincia in maniera molto casuale». Ricorda Zermo: «Erano gli anni 50, c’era voglia di fare, di ricostruire. E tante opportunità. A me una la diede un mio vecchio compagno di scuola al Leonardo da Vinci, l’avvocato Pippo Parisi: “Sto partendo militare, vuoi sostituirmi al giornale? Io faccio il ciclismo, alla fine del mese mi danno una busta con dei soldini e ci sono soprattutto le tessere del cinema”. Per me fu la molla per dire sì». Candido Cannavò, Gigi Prestinenza, «un vero maestro», Angelo Casabianca, «galantuomo e campione dell’organizzazione».Il ciclismo, fino alle epiche sfide Coppi-Bartali, ma anche «un episodio rabbrividente». In un campionato nazionale Allievi, a Messina, «un signore si offre di accompagnarci a seguito della corsa. Questo correva come un folle. A un certo punto ci confessò: “Io sono il mostro dell’autostrada, ho ucciso tre persone in un incidente. Da allora mi hanno tolto la patente. E ora guido da abusivo”. Me la sono quasi fatta addosso…».

«E piripìm-piripàm». Addio biciclette, resta la passione per lo sport: «Da inviato ho fatto cinque mondiali di calcio, a partire da quello in Inghilterra del 1966». Ma Zermo comincia a sentirsi «un po’ stretto, ingabbiato». Scrive di cronaca nera, «qualche incidente, ma poca roba». Fino a quell’intervista a Marcello Mastroianni, in piena epoca de La Dolce Vita. «Era ad Augusta a girare un film, ne venne fuori un pezzo divertente. E l’editore, il commendatore Domenico Sanfilippo, mi disse: “Sa fare altro, faccia altro”». E così fu. Disastro del Vajont, 1963. «Partii con Nino Milazzo. Lui faceva la nota politica, io la cronaca. Ricordo Mario Ciceri, l’inviato del Mattino, che piangeva. Col brodo mangiava anche le sue lacrime. “Piantala”, gli dissi». Lacrime e cronache. Di macerie e di morti: Belice (1968), Friuli (1976), Irpinia (1980). «Forse sono l’unico giornalista italiano ad aver seguito tutti i tre grandi terremoti».

«E piripìm-piripàm». Gli anni di piombo, Piazza Fontana, il rapimento Sossi, il sequestro e l’uccisione di Moro. «I politici di allora, compresa la Dc, lo vollero morto. “Nessuna ragion di Stato vale la vita di un uomo”, mi disse Sciascia in un’intervista a casa sua a Racalmuto». Quella frase divenne una linea editoriale: «Quando i brigatisti rapirono il giudice catanese D’Urso, il governo Craxi chiese ai giornali di non pubblicare più le lettere delle Br. Io convinsi il condirettore Corigliano a farlo. Erano notizie, dovevamo stamparle». Come quelle dei grandi delitti di mafia che Zermo ricorda di aver seguito: De Mauro, Mattarella, Dalla Chiesa, fino alla stagione delle stragi. Una narrazione – quella iniziale, a Catania – tanto soft da diventare negazionista? «I tempi erano diversi. I catanesi non credevano che ci fosse la mafia. E il giornale rifletteva l’opinione diffusa che c’era in città». Zermo sospira e ammette: «C’è stata una sottovalutazione, ma era dettata dall’ambiente cittadino. Quando Santapaola inaugurò la Pamcar, c’era il prefetto a tagliare il nastro. Noi non nascondevamo le notizie, erano le fonti d’informazione a consigliarci la prudenza». Altro sospiro: «Sì, è vero: noi potevamo scavare di più. Ci siamo svegliati dopo l’omicidio di Dalla Chiesa. Da quel momento in poi abbiamo fatto quattro pagine al giorno. Mi ricordo anche le inchieste sul traffico di droga e di armi, con le barche cariche dal Libano a Catania, dove lo spirito “commerciante” contagiò anche la mafia. E il maxi-processo: dal 1986, impegnò per un anno e mezzo la mia vita e quella del collega Giorgio Petta». Poi racconta del rapporto con Pippo Fava, «un mio amico fraterno, un talentuoso assoluto». Era «bravo in tutto: scriveva divinamente, anche romanzi e testi teatrali, bravo a dipingere, giocava bene a pallone, a tennis, a biliardo e a tressette. Un jocu ‘i focu. Mi pento di una cosa: quando Pippo Recca mi propose di dirigere il suo nuovo giornale, io rifiutai e gli consigliai Fava come direttore. Così Pippo, che era a Roma, tornò a Catania per cominciare l’avventura al “Giornale del Sud”, con tutto quello che seguì dopo». E poi – qui l’“intervistato” brucia sul tempo l’“intervistatore” – «nel film su Fava c’è un personaggio, “Gaetano”, che sarei io. Non è stata una cosa cattiva, ma io non mi rivedo. Questo personaggio consiglia a Pippo di prendersi i soldi e lasciare il giornale. È una cosa che avrei potuto dirgli anch’io, ma non gliel’ho mai detta».A proposito di errori: nella frenesia di raccontare il delitto dell’agente Agostino, a Villagrazia di Carini, «scrissi che la moto degli assassini apparteneva a un professionista che aveva avuto precedenti per traffico d’armi. Ma il precedente – ammette – era per semplice detenzione. I suoi avvocati mi chiesero cento milioni di lire, un’enormità all’epoca». E, «pur sapendo che il giornale mi avrebbe protetto, cercai di cavarmela da solo. Mi salvò il giudice Falcone. Seppi da una fonte palermitana che quell’elegante signore era indagato per traffico di droga. Falcone me lo confermò. Ci incontrammo a un convegno in cui lui era relatore a Catania, a Palazzo delle Scienze. Aprì la borsa, mi diede questo foglietto che poi il mio avvocato Truglio sbandierò sotto il naso del signore delle armi. Che ritirò la richiesta di danni».

«E piripìm-piripàm». Con l’amara consapevolezza, per chi ascolta a bocca aperta decine aneddoti, di un mestiere che non è più quello di una volta. «Era facile per noi giornalisti, quando non c’erano le diavolerie di internet. C’era la “Lettera 22”, che io comprai nel 1956 assieme a Cannavò. Tu scrivevi e poi – racconta Zermo – ti attaccavi al telefono e dettavi. Dall’altra parte c’era una batteria di stenografi di rango: Turi Falsaperla, Totò Esposito, Italo Fraticelli e tanti altri. Dettavi senza limiti e il piombo faceva il resto. Poi ci siamo dovuti abituare a un giornalismo diverso, più secco. E, dopo l’esplosione dei telegiornali prima e dei siti dopo, a fare più approfondimento. Le sfaccettature, i dettagli, i retroscena. Tu sei bravo in questo, così come nello sfruculiare, nel raccontare i segreti. Anche della politica, di cui io non mi sono mai occupato». Cambiamo discorso: il primo computer? «Per i mondiali di Usa 1994. Partii con due enormi bestioni in valigia. Non ne funzionò neanche uno. E continuai a dettare…». Infine, la resa definitiva alla tecnologia, l’addio all’Olivetti, la necessità (più che la voglia) di imparare i nuovi sistemi editoriali.

«E piripìm-piripàm». Come in pace, così in guerra. Bosnia, 1990: partenza da Falconara. «Il collega Gigi Riva riuscì a farmi salire anche senza elmetto né giubbotto antiproiettile. Nell’aereo militare ero seduto fra Julio Fuentes, poi ucciso assieme a Maria Grazia Cutuli, ed Enzo Biagi, che mi mandò i saluti per il direttore Mario Ciancio. Arrivato all’Holiday Inn non c’erano più stanze. Chiesi a Beppe Zaccaria, inviato della Stampa che era lì da un anno e mezzo, di convincere la signora della reception a darmene una. Tornò con una chiave: stanza numero 729. Ma mi avvertì: “Qui davanti c’è un palazzo sforacchiato che copre fino al sesto piano. Dal settimo in poi sono cazzi tuoi. Mi presi la stanza…».

«E piripìm-piripàm». Zermo rivendica che «il nostro giornale ha insegnato a tre quarti dell’Isola non solo a leggere, ma anche a capire le cose. Abbiamo formato generazioni di classe dirigente siciliana. “Leggevo il mondo leggendo i suoi articoli”, mi dicono ancora». Certo, c’è anche l’amarezza per non aver vinto due storiche battaglie in cui ha messo la penna, la faccia e il cuore: il casinò di Taormina e il Ponte sullo Stretto. Che «resta un’opera fondamentale e sono certo che prima o poi se ne convinceranno e. Magari io non lo vedrò, ma i miei nipoti sì…».

«E piripìm-piripàm». Resta, nella sua banalità, un’ultima domanda: perché, contrariamente a tanti altri – compresi anche suoi allievi, fra cui «forse, per poco tempo, Francesco Merlo» – non ha lasciato Catania per la carriera in una testata nazionale? «Perché sono catanese, perché avevo i genitori anziani, perché il giornale mi dava e mi ha dato tutto. E soprattutto – scandisce Zermo con la voce rotta dall’emozione – perché questa è la terra dove un giornalista può trovare e fare il meglio del suo mestiere. Qui c’è il microcosmo, amplificato, di tutto il mondo. E non hai bisogno di andare da nessuna parte. Capito? Questo vale anche per te. Me lo devi promettere!».

«E piripìm-piripàm», verrebbe da dirgli per sfuggire all’impegno, mentre lui prende tempo con Carlotta che lo incalza al telefono. E invece no. Promesso, caro “Tano”: ci rivediamo sempre qui, ’o giunnali.

Twitter: @MarioBarresi

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