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Brusca, Ardita: «Retorica fra gli indignati, il punto è che i pentiti sono finiti»

Di Mario Barresi |

Catania – Sebastiano Ardita, qual è la prima sensazione che ha provato per la scarcerazione di Brusca?

«Ho temuto che la gente non avrebbe capito e che avrebbe avuto un’inevitabile forma di ripugnanza, che è quella che provo anch’io da cittadino. Ma, anche se non si tratta di una situazione semplice da spiegare, lo Stato ha pagato un debito per avere ottenuto qualcosa in cambio, ed era un impegno assunto sulla base di una legge».

Pur essendo una notizia scontata, da più parti – istituzioni, politica, antimafia – si levano parole d’indignazione. Sono un esercizio di retorica?

«Io credo davvero che si tratti un massima parte di retorica, anche se nessun ergastolo potrebbe mai ripagare la tortura e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ed è retorica perché questa indignazione arriva anche da chi aveva salutato con favore la sentenza europea che apre la strada alla concessione degli stessi benefici per i mafiosi che non collaborano con la giustizia. Allora così capisci che in questo caso specifico per costoro il problema non è la concessione dei benefici in sé, ma il fatto che siano dati a chi ha collaborato con la giustizia».

La sorella di Giovanni Falcone, Maria, a caldo, ha detto: «Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata».

«È un’affermazione che sottoscrivo. Se si fosse potuto fare a meno dei collaboratori di giustizia per venire fuori dal dominio che la mafia aveva sui nostri territori, sarei stato il primo a dire che non bisognava togliere neppure un giorno di carcere a chi aveva sparso morte e terrore. Ma purtroppo senza i collaboratori la mafia avrebbe continuato a spadroneggiare nelle nostre città in modo arrogante, diverso da quello più discreto e meno visibile con cui ancora comunque si manifesta».

Da alcune parti politiche, Salvini e non solo, emerge la proposta di cambiare la legge sui pentiti. Secondo lei ci sarebbe bisogno di un tagliando?

«Sono normative nate da condizioni molto particolari, per le quali un adeguamento ai tempi che cambiano in sé non guasterebbe. Il vero problema è che ogni proposta oggi sembra finalizzata a ridurre gli strumenti e a limitare le indagini. Essere garantisti è giusto, lo è di meno mettere la testa sotto la sabbia e rinunciare a scoprire la verità».

Oltre al profilo giuridico c’è quello umano. Chi è responsabile di decine di omicidi di mafia può davvero avere una “second life” dopo 25 anni?

«Questo dipende da ciascuna persona e dal suo percorso individuale. Ho visto uomini cambiati dal carcere e desiderosi di rifarsi un’esistenza, e altri che hanno brigato per potere tornare a delinquere e a seminare terrore».

Brusca, da collaboratore di giustizia, ha avuto un ruolo anche nella ricostruzione delle stragi. Ma, dopo quasi trent’anni, su quelle vicende rimane un grande alone di mistero. Si riuscirà mai a scoprire tutta la verità?

«Qualcosa si è già scoperto e su tutto il resto chi è attento si è fatto un’idea. Personalmente credo che la verità alla lunga venga sempre fuori. È solo questione di tempo, quello che ci vuole affinché vengano meno le “protezioni” che impediscono ai fatti di essere conosciuti».

Nella metamorfosi della mafia di oggi, che lei ha riscontrato nelle sue indagini e raccontato nei suoi libri, com’è cambiato il ruolo dei pentiti?

«È cambiato il fatto che sono finiti i pentiti. Il fenomeno non è più d’interesse, la normativa li scoraggia, l’esecutivo non li coltiva. Cosa nostra segmenta le comunicazioni, evita gli omicidi e i reati che potrebbero condurre a pene elevate. Quando dirigevo l’ufficio detenuti mi preoccupavo che il trattamento penitenziario potesse produrre, tra le conseguenze previste dalla legge, anche un numero adeguato e qualificato di collaboratori».

Spesso anche sul 41-bis ci sono state polemiche. Il carcere duro resta un caposaldo della lotta alla mafia?

«Il 41-bis rimane uno strumento importante nei confronti dei capi di cosa nostra. Più in generale il carcere riesce a conseguire i suoi scopi solo se si mantiene un equilibrio tra sicurezza e condizioni di vita dei reclusi. Ed è per questo che ho sempre ritenuto che i peggiori collaboratori sono quelli che avevano come loro unico scopo l’uscita dal carcere. La collaborazione dovrebbe essere la punta avanzata del trattamento di chi ha commesso reati gravi, una scelta di vita, anche se fatta per interesse, ma che sia definitiva e che serva anche allo Stato per sradicare e sconfiggere fenomeni criminali devastanti. E invece oggi non è più nulla di tutto ciò: non vedo né progetti né una formazione come ve ne era un tempo. E i magistrati più esperti, quelli che gestirono le collaborazioni con le quali è stato messo a terra il gotha di Cosa Nostra, sono oramai anziani o già in pensione».

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