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Il virus in Sicilia: macché bergamaschi! Ecco come è arrivato e chi l’ha diffuso

Di Mario Barresi |

La “prima volta” fu con i bergamaschi in gita a Palermo. Il 25 febbraio scorso, la perdita dell’innocenza. La Sicilia scopre il Covid-19. Ma non sono loro gli “untori”. Nessuno dei tre positivi (poi ricoverati, due dei quali guariti) della comitiva di 28 turisti ha innescato i contagi nell’Isola. Per gli epidemiologi resta sullo sfondo il potenziale nesso con il successivo contagio di un medico, originario di Catania e in servizio all’ospedale di Enna, che «aveva avuto contatti, sebbene non diretti, con i turisti bergamaschi in vacanza a Palermo».

E allora chi è il “paziente zero”? Quando, come, perché e – soprattutto – da chi la Sicilia ha importato il coronavirus? Secondo l’ultimo studio dell’Osservatorio epidemiologico della Regione, le matrici del contagio vanno cercate nei «primi casi riscontrati di soggetti positivi di rientro dal Nord». In un arco di tempo ben preciso: fra il 27 febbraio e il 7 marzo.

I primi 4 focolai

Il dossier di 24 pagine, approfondendo le relazioni delle Asp, indica quattro focolai iniziali. Che si sviluppano quasi in contemporanea.

Il più esteso e controverso è nel Catanese. Il «primo caso di coronavirus di cui ci sia stata notizia nel capoluogo etneo», annota il report, è quello della «professionista catanese rientrata da Milano e già guarita». Le attenzioni degli esperti, però, si concentrano sul cosiddetto «cluster di Agraria». Con 12 casi accertati nella facoltà universitaria. «Uno è il presunto studente 25enne di Misterbianco che si trova in quarantena a casa: secondo quanto sostenuto da una nota dell’ateneo, si tratta invece – precisa l’Osservatorio epidemiologico regionale – di un giovane ingegnere che, per motivi extra accademici, è entrato in contatto con un docente di Agraria. Poi ci sono un altro docente, il parente di un professore già contagiato, e due persone che lavorano nel dipartimento. E altri sei – professori e loro stretti congiunti – già nei giorni precedenti. In aggiunta a questi ci sono l’agronomo di Catania che insegna in Calabria e sua moglie».

Ma la catena del contagio, sotto il Vulcano, è ben più aggrovigliata: l’«infermiere tornato in Sicilia dalla mobilità, che avrebbe dovuto prendere servizio all’ospedale San Marco»; i «due contatti di uno dei ricoverati al Cannizzaro, che hanno ospitato l’uomo a cena e sono risultati positivi al virus»; il «giovane imprenditore catanese che, per motivi di lavoro, aveva avuto contatti prolungati con un cittadino risultato positivo al Covid-19 (peraltro poi finito in Terapia intensiva a Reggio Emilia)».

La vera prémiere del coronavirus a Palermo, dunque, non è all’hotel Mercure. Il dossier lo fa risalire al caso di un «carabiniere in servizio al comando provinciale, tornato da poco in città dalla settimana bianca in Trentino Alto Adige e passato dall’aeroporto di Verona». Il militare «si è sentito male al rientro dalla vacanza e dopo aver effettuato il test è risultato positivo al coronavirus». Finite «in quarantena le persone che sono entrate in contatto con lui, tra familiari e i pochi colleghi che ha visto durante il breve periodo che ha trascorso in servizio». Appena quattro ore, il 25 febbraio. Quanto basta per il contagio di 12 carabinieri, compreso il comandante provinciale Arturo Guarino.

I primissimi casi nel Messinese sono a Sant’Agata di Militello («un vigile del fuoco rientrato da Roma ricoverato ospedale di Barcellona Pozzo di Gotto» e poi in città («un professore universitario in pensione, con contatto verosimilmente di familiare proveniente dall’estero)». L’effetto collaterale è anche un contagio etneo, su «un cittadino di Santa Maria di Licodia che si è presentato in pronto soccorso, avendo avuto contatti con uno dei contagiati messinesi, ed è risultato positivo al test», si legge nello studio.

E infine, sempre nella “preistoria” del Covid-19 in Sicilia, il significativo cluster nell’Agrigentino: il primo positivo è «un medico all’ospedale di Sciacca (presunto contatto familiare proveniente dalla Lombardia)», a cui è collegato il «successivo riscontro altri positivi dopo effettuazione di test a tappeto nel reparto di appartenenza». Alla fine i contagi accertati sono una ventina; quattro, purtroppo, le vittime ritenute legate al cluster dell’ospedale, il cui direttore sanitario è stato rimosso. Le date-clou: 8 e 11 marzo.

Il Catanese (soprattutto in città), Palermo, il Messinese e Sciacca. Sono i primi quattro fronti a rischio. Andavano gestiti meglio. Ma siamo agli albori della diffusione del contagio. Che, ancora, poteva essere contenuto e circoscritto. Prima che si arrivasse a quelle che secondo lo studio sono le due date decisive per l’impennata della curva.

La prima è l’8 marzo: nella notte il premier Giuseppe Conte istituisce le prime zone rosse in Lombardia e in altre province del Nord. Alcune ore dopo il governatore Nello Musumeci proverà a correre ai riparti, con l’ordinanza che impone registrazione e quarantena ai chi torna in Sicilia.

Ma la condizione è ormai irreversibile, perché «nelle ore precedenti l’approvazione» della norma nazionale (ampiamente anticipata ai media) si registra «il rientro di almeno 13.440 persone». L’altra data-clou è l’11 marzo, con la firma del dpcm già passato alla storia con l’hashtag #iorestoacasa. Dopo il quale, secondo lo studio epidemiologico regionale, «si registra un’altra ondata di rientri» nell’Isola.

L’esodo e i nuovi cluster

Un dato statistico (30.419 i rientri registrati nel portale regionale) che diventa un’accreditata ipotesi epidemiologica. Gli “007” delle Asp siciliane ricostruiscono da quel controesodo di massa numerosi link di contagio. Il primo il 10 marzo, l’«inizio del cluster di Alcamo», con «la prima diagnosi di un caso che genera in pochi giorni altri 8 casi». E poi gli altri legati direttamente a positivi “settentrionali”. Il 17 marzo nell’isola di Salina i primi due casi che «riguardano una giovane di 25 anni era appena tornata a Santa Marina di Salina dal nord Italia e un isolano dello stesso comune, di 64 anni».

Molto più pesante, per numero e per responsabilità, il cluster degli “sciatori” di Messina. Il 17 marzo, si legge nel dossier, arriva la conferma del’«esito positivo ai test di un operatore sanitario di una comitiva che all’inizio di marzo era stata a Madonna di Campiglio». Si tratta di «un gruppo di 150 persone circa, in vacanza in Trentino dal 29 febbraio al 7 marzo». Messinesi che «passati dall’aeroporto di Bergamo, non si sono autoregistrati né hanno avvisato le autorità: tra loro vi sono almeno due positivi, uno dei quali è un medico». La Procura di Messina ha aperto un’indagine conoscitiva.

Quasi in contemporanea scoppia il bubbone nel triangolo maledetto dell’Ennese: Assoro-Leonforte-Agira. Un focolaio che «si pensa possa avere avuto origine da due riunioni di carattere religioso tenute, tra il 4 e il 7 marzo, da due sacerdoti risultati positivi e attualmente ricoverati all’ospedale di Enna non in gravi condizioni». Inoltre, «quattro giovani che vivono in pianta stabile nella struttura avrebbero contratto il virus all’interno del Villaggio Cristo Redentore». Nel dossier non si va oltre, ma qualificate fonti (anche investigative) ennesi sostengono che in tutti i casi ci sarebbe il fil rouge dei contagi “importati”.

Le falle nelle zone rosse

Ed è proprio da Leonforte, secondo la vulgata prima ancora che per gli epidemiologi, che parte il tragico picco di contagi all’Oasi di Troina. Il 20 marzo i primi cinque positivi. «L’ipotesi è che il virus sia entrato nella struttura attraverso un infermiere che non ha mai avuto sintomi, ma che era venuto a contatto con un contagiato di Leonforte». E il bilancio è disastroso: 100 disabili e 57 dipendenti contagiati (anche il sindaco Fabio Venezia positivo); quattro vittime fra gli ospiti, di età compresa fra 50 e 59 anni. La Regione ha inviato un commissario.

Troina è stata la prima “zona rossa” dichiarata da Musumeci, il 23 marzo, assieme a Salemi. Nel Trapanese il “peccato originale”, secondo gli esperti è la festa «per il diciottesimo compleanno di una giovane salemitana in una struttura privata a Castellammare del Golfo», il 5 marzo. Non viene specificata la matrice dell’infezione, ma il bilancio è pesante: il «focolaio scoperto il 20 marzo», comprende, su 98 invitati, «15 positivi e 21 sottoposti a tampone in attesa dei risultati». La terza comunità “chiusa per vitus” è Villafrati, nel Palermitano. L’epicentro è l’ospizio Villa delle Palme: 103 tamponi fra i 75 dipendenti e i 60 assistiti, 74 contagi accertati per «probabile contatto con giovane in vista di rientro dal Nord Italia».

L’abbraccio mortale

Proprio questa è la causa scatenante, più o meno direttamente, anche degli ultimi focolai studiati dall’Osservatorio con data 22 marzo: l’Ircss Neurolesi “Bonino Pulejo” («individuati all’inizio una trentina di casi tra degenti e personale sanitario») e la casa di riposo “Come d’incanto”, «con i primi 15 anziani positivi e una donna di 90 anni ricoverata al Policlinico, dove sono finiti anche 71 ospiti e 16 dipendenti dapprima in isolamento nella struttura». Il conto finale è pesante: 63 contagiati, quattro vittime.

Il record d’infetti nell’Ennese, il disastro all’Oasi di Troina, la catena di contagi nelle strutture sanitarie e nelle case di riposo di Villafrati e Messina. Ci sarebbe un legame fra tutti questi cluster. Gli esperti dell’Osservatorio epidemiologico della Regione individuano un nesso fra due elementi: il contagio “importato” dai rientranti e i successivi focolai in alcune strutture sanitarie. «Il profilo epidemico locale è stato condizionato, come nel resto delle aree in cui non vi è stata circolazione massiva da focolai epidemici localizzati prevalentemente in ambienti confinati e/o in comunità ristrette e non si è registrato al momento una ulteriore aumento di tipo esponenziale su popolazione aperta al netto di alcuni limitati cluster prontamente identificati e isolati». E, in questo contesto, «in particolare un ruolo attivo è stato giocato dai focolai in case di riposo-Rsa-ambienti nosocomiali chiusi nei quali anche il contagio con operatori sanitari ha giocato un ruolo decisivo».

Però, conclude il dossier, «nelle fasi iniziali di tali focolai gran parte dell’esposizione è da ascrivere a contatti con soggetti provenienti da aeree a maggior rischio del Paese prima che venissero adottate le misure di isolamento nei confronti di tale categoria di soggetti».

Come dire: un abbraccio mortale fra generazioni. Nipoti scappati dal Nord, per sfuggire al mostro invisibile. Che li ha inseguiti fino in Sicilia. E li ha raggiunti. Contagiando e, talvolta, uccidendo i loro nonni.

Twitter: @MarioBarresi

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