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Giovanni, il miracolo “triplo” della vita al Cannizzaro di Catania

Di Mario Barresi |

Catania. Se fossimo in altri tempi ci sarebbe stata una grande festa, in reparto. Di quelle con tanti palloncini (azzurri) e altrettanti parenti (commossi).

Ma siamo in questi, di tempi. E così una specie di miracolo – laico, medico – si consuma con la protagonista a gioire in totale solitudine. Soltanto medici e infermieri, con il dg Salvatore Giuffrida, a ripeterle «quant’è stata fortunata», «quanto è raro il suo caso». Mentre lei li guarda, raggiante, ma con sguardo quasi distratto. Perché non ha occhi che per lui. Giovanni, un batuffolo di più di tre chili e mezzo. Che piange poco e sorride tanto. Forse ha già capito tutto, lui.

No, nessun lockdown per la “fabbrica delle vite”. Al “Cannizzaro” di Catania si continua a nascere. Ogni giorno. Ma quello di 24 ore fa non è un parto come tutti gli altri. In un reparto, Ostetricia e ginecologia, che come altrove è ancor più blindato – in un’era in cui si separano i sani dagli infetti, figurarsi se non si separa la nuova vita dalla morte – Annamaria Scarcella è mamma per la prima volta. Quasi quarant’anni, messinese, «per le statistiche mondiali aveva poco meno dell’80% di probabilità di portare a termine la gravidanza. E semmai non fosse subentrato l’aborto, in ogni caso il parto sarebbe stato quasi certamente prematuro», spiega Paolo Scollo, direttore di Ostetricia e ginecologia.

Perché, rivela, «nel 2009 aveva subìto il trapianto di pancreas e rene al centro dedicato del Policlinico di Catania, diretto dal professore Veroux». Ma, ricorda Scollo, «ha dato alla luce uno splendido maschietto, portando a termine la gravidanza con un parto cesareo alla trentanovesima settimana, nonostante i rischi correlati al doppio trapianto d’organo e alla terapia immunoppressiva effettuata».

Annamaria sta bene. «Non vedo l’ora di tornare a casa, forse domani (oggi per chi legge, ndr) mi fanno uscire. Mi sembrerà strano, rivedere i miei cari, perché ho sì avuto la fortuna di una gravidanza normale, pur nelle mie condizioni. Ma in pratica è da un mese e mezzo che sto da sola». La neo-mamma confessa che, oltre che con «la grandissima paura di non arrivare al parto», ha dovuto convivere con un altro terrore: «Dopo aver superato ostacoli che sembravano insormontabili, c’era l’incubo del Covid-19». Lo conferma il professore Scollo: «Era una paziente delicatissima, ad altissimo rischio di contagio per la terapia anti-rigetto che fa da dopo il trapianto, con un farmaco che, pur essendo non incompatibile con la gravidanza, la esponeva molto dal punto».

Invece è andata bene: «Prima il doppio trapianto, poi una vita normale. Adesso la nascita di Giovanni. Devo molto alla sanità catanese. Ma in questi ultimi giorni il mio “debito” è anche umano. Ero da sola, non avevo nessuno. E tutte le persone, qui dentro, sono diventate la mia famiglia».

Altro che distanziamento sociale. Ai tempi della pandemia, la misura di contenimento per chi ha la meravigliosa disgrazia di dare alla luce può anche diventare la solitudine. «Sono stata per un mese e mezzo chiusa a casa. Lontana da mia mamma, da mia sorella e dalle mie nipotine che vedevo soltanto con le videochiamate. E soprattutto lontana da mio marito, che fa un mestiere a rischio».

Già, perché qui la storia, come suggerisce Annamaria, «diventa una bella favola». Suo marito, Adolfo Romeo, è medico. Un nefrologo. Ma non uno qualunque. «Ci siamo conosciuti poco dopo il trapianto, e ci siamo rivisti un anno dopo». E così, fra una dialisi e l’altra, da cosa nasce cosa.

Un supplizio, per il marito. Da medico e da futuro papà stare lontano da lei, soprattutto nel momento più atteso. Più delicato. «No, ovviamente non ha assistito al parto», conferma la neo-mamma. Che però ha ricevuto un regalo speciale dall’équipe del professore Scollo: «Una videochiamata dalla sala parto, per fargli condividere – racconta il primario – questo momento indimenticabile. Del resto, se c’è la tecnologia, perché non usarla per alleviare le difficoltà che stiamo vivendo?». Le misure di prevenzione, oltre al rafforzamento della presenza di ostetriche con rapporto 1/1, al “Cannizzaro” prevede anche «la riduzione nel numero di pazienti nelle stanze: le triple sono diventate doppie, le doppie singole». Tutte alla giusta distanza.

E ora Annamaria sta da sola con Giovanni appiccicato addosso. Qui dentro, nessuna barriera. Il coronavirus resta fuori dalla stanza.

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