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«Io, cappellano al Cannizzaro di Catania dentro un reparto Covid»

Di Redazione |

«Certo anche noi cappellani, pur abituati alla sofferenza, alla malattia ed alla morte, siamo rimasti spiazzati dagli effetti devastanti di questa brutta pandemia, non solo per gli effetti che provoca nel corpo ma direi a quelli invisibili ma altrettanto devastanti che provocano nell’anima,nei sentimenti e negli affetti». Don Mario Torracca, è sacerdote e medico, ed è direttore dell’Ufficio per la Salute della Conferenza episcopale siciliana e ha raccontato sul sito della Cesi la sua esperienza di cappellano all’interno del Reparto Covid dell’Azienda ospedaliera Cannizzaro di Catania.

«Pensavamo di esserci lasciati alle spalle i segni della sofferenza e della morte provocati dal Sars Cov2 a marzo scorso – ha detto don Mario – ma in realtà ancora non avevamo compreso che quel terribile ed invisibile nemico, seminatore di morte, era pronto a sferrare un attacco ben più terrificante del primo. E mentre il mondo si divide in due tra chi nega l’evidenza, mettendo in atto comportamenti irresponsabili nocivi non solo a loro, ma anche agi altri, e in chi, per timore del contagio, si chiude in casa estraniandosi dal resto del mondo, tra questi, quasi a far da spartiacque, un piccolo esercito di uomini e donne che, pur temendo per sé e le loro famiglie, si prodigano per aiutare coloro che sono colpiti da questa brutta malattia: penso ai tanti medici, infermieri, operatori sanitari che ogni giorno rischiano la vita ma danno testimonianza di serietà, senso del dovere e coraggio. Tra questi anche i tanti cappellani ospedalieri che offrono il loro ministero accanto al malato con amore e generosità».

Un’opera quella dei cappellani davvero in prima linea: «Certo anche noi cappellani, pur abituati alla sofferenza, alla malattia ed alla morte, siamo rimasti spiazzati dagli effetti devastanti di questa brutta pandemia, non solo per gli effetti che provoca nel corpo ma direi a quelli invisibili ma altrettanto devastanti che provocano nell’anima,nei sentimenti e negli affetti. Come descrivere, senza rimanere turbati, i volti dei malati che giornalmente incontro nei reparti Covid del mio ospedale: volti impauriti per la malattia, addolorati perché strappati dai loro affetti familiari, impossibilitati a ricevere visite. Chi ha fatto esperienza di un reparto di semintensiva o intensiva sa come il tempo sembra non scorrere mai, e la paura, lo scoraggiamento prendono il sopravvento. Il cappellano ospedaliero è l’unico che può andare a visitare i malati di Covid per rivolgergli una parola di conforto e di fede. Spesso mi capita di fare da “messaggero”: i parenti vengono in cappella pregandomi di portargli un loro messaggio, un gesto di affetto».

La giornata del cappellano in un reparto Covid ha precise tappe: «Preghiera in cappella – spiega don Mario – e poi subito nell’Area Covid dove ha inizio la vestizione: tuta ermetica, primo paio di guanti, calzari a stivale, mascherina FP2, sopra mascherina chirurgica, altro paio di guanti, visiera in plastica trasparente, ed infine al collo un’insolita pisside monouso, un sacchettino ricavato dal lenzuolino sterile confezionato in cappella che contiene una sola particola, da cestinare subito dopo aver dato la Comunione ad un malato Covid. Quindi la visita in ogni stanza per scambiare qualche parola, se possibile, fare una preghiera insieme e impartire la Benedizione, un’interminabile Via Crucis, mentre respiri a fatica così bardato, quasi irriconoscibile se non fosse per quella Croce che gli infermieri che, con amore e rispetto, ti disegnano sulla tuta per far capire che sei un prete».

E non sono solo i malati che hanno bisogno di sostegno: «Finito il giro dei malati occorre anche far sentire la vicinanza al personale, celebrando con loro un breve momento di preghiera e impartendo anche a loro la benedizione. Poi il momento più pericoloso: la svestizione… basta un niente, una distrazione e ti sei beccato il Covid! E allora con calma inizia quasi un rito che gli “esperti del reparto di Malattie Infettive” ti hanno con tanto affetto e preoccupazione insegnato. Poi il momento più triste, la visita in obitorio, ancor più triste essere costretti a benedire le salme rigorosamente sigillate perché ai familiari non è consentito entrare dentro. Quanta sofferenza… I familiari si sono visti portare il loro caro in ambulanza e poi non lo hanno più visto… neanche per l’ultimo saluto. Qualcuno – racconta don Mario – a volte mi chiede: “Ma non hai paura ad entrare nell’area Covid?” Certo che anche noi cappellani abbiamo paura, ma la gioia e l’amore che mettiamo nel nostro ministero ce la fa superare. Credo, anzi che in questa emergenza, possiamo testimoniare fattivamente ciò che da anni, anche come Uffici di Pastorale per la Salute delle nostre diocesi, abbiamo affermato con forza: la presenza dell’Assistenza religiosa negli ospedali non è un optional, un servizio in più, ma è parte integrante ed imprescindibile nel cammino terapeutico di un malato e quindi il cappellano, pienamente inserito nel tessuto ospedaliero è a pieno titolo parte dello staff sanitario ospedaliero. In tale contesto, sono convinto che ci giochiamo la nostra credibilità di Chiesa incarnata nel tessuto sociale e, per dirla col le parole di Papa Francesco, nelle periferie esistenziali».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA