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Acqua pubblica la grande impostura

Acqua pubblica, la grande impostura nella Sicilia assetata fra inchieste e affari

 Multinazionali e big della finanza: ecco chi sono i padroni del rubinetto

Di Mario Barresi |

Fra le più grandi imposture dell’anno che sta per finire c’è la grancassa – nei palazzi della politica e nelle piazze virtuali dei social network, entrambi luoghi in cui le bugie non lasciano tracce, né rossori – sull’acqua pubblica in Sicilia. Terra di sete storica e di affari consolidati.

Nonostante il massiccio voto dei cittadini siciliani al referendum del 2011; nonostante la legge regionale 19/2015 a “trazione grillina”, approvata nell’agosto scorso e impugnata in ottobre da Palazzo Chigi perché «eccede i limiti di competenza regionale».

Una questione aperta e tutt’ora oggetto, in attesa del rattoppo, di mediazione fra integralisti del servizio pubblico (il presidente Rosario Crocetta) e laici del libero mercato (l’assessora, Vania Contrafatto, renziana). Il testo della riforma bocciata da Roma è il festival dei buoni propositi. Si va dal «nessuno può essere privato dell’acqua, nemmeno se indigente» al proclama secondo il quale «l’acqua, come bene pubblico non assoggettabile a finalità lucrative» avrà una tariffa unica e popolare. Anzi, «tendenzialmente» unica; perché in Sicilia un avverbio è meglio comunque aggiungerlo, non si sa mai. Sul campo c’è la battaglia, sincera e a testa alta, di decine di comitati di cittadini. Ma la realtà, nell’isola racconta un’altra storia.

Che non è soltanto quella della scandalosa sete di Messina, dei guasti all’Ancipa con disservizi nell’Ennese, dell’acqua «potabile ma non bevibile» di Gela, delle tariffe astronomiche per un’erogazione a singhiozzo nell’Agrigentino. E non basta nemmeno il fil rouge che lega le numerose inchieste delle procure siciliane in materia: dall’acquedotto in tilt (Messina) al liquido torbido (Caltanissetta), dalla gestione del servizio (Agrigento) all’acqua adulterata (Siracusa). Il punto è un altro. E cioè che in Sicilia l’acqua è in mano ai privati. Multinazionali, soprattutto. Intoccabili.

Tant’è che persino la pioneristica riforma votata all’Ars non sarebbe riuscita a scalfire, ad esempio, il monopolio di Siciliacque Spa. Una società partecipata al 25% dalla Regione, ma per 3/4 in mano a Idrosicilia Spa. Una società composta dal colosso francese Veolia Water St (59,6%), da Enel (40%) e da Emit (0,1%). Veolia, fino al 2005, era Vivendi. Un colosso, legato (14%) al magnate francese Vincent Bellorè, che in Italia ha interessi nelle assicurazioni e nelle telecomunicazioni, con il 14,9% di Telecom Italia e una partership con Enel per Metroweb nella banda larga. La cassaforte di Bellorè (il cui fatturato è al 27% generato in Africa) è il potentissimo fondo Usa “BlackRock”.

Siciliacque eroga 90 milioni di metri cubi di acqua potabile a mezza Sicilia anche grazie agli impianti ereditati dall’Eas (Ente acquedotti siciliani), in liquidazione da oltre un decennio ma mai liquidato. In tutto 1.800 chilometri di rete, 13 acquedotti, 6 invasi, un dissalatore e 5 mega-potabilizzatori. Siciliacque è concessionaria fino al 2044, con un investimento – coperto da Unicredit e Banca Intesa – di 580 milioni nel quarantennio.

«La piratizzazione dell’acqua siciliana», la definisce Mario Di Mauro, spin doctor della fase più autentica dell’autonomismo di Raffaele Lombardo e fondatore di “Terra e LiberAzione”. «Un leader del neoindipendentismo – si autodefinisce – oggi siciliano scazzato ma resistente». E incontintente – aggiungiamo noi – nei suoi blog. La privatizzazione? «Inscenarono lo spettacolo della sete, nell’estate 2002, per legittimare la svendita. Un capolavoro di cinema coloniale». Il partner privato della Regione ha vinto regolarmente un bando, voluto dal governo di Totò Cuffaro. E non ha alcuna intenzione di mollare la gestione.

Al di là delle onerose clausole rescissorie, il presidente della società, Antonio Tito, ha ricordato che se la Regione si tirasse indietro dovrebbe anche «restituire i 160 milioni di investimenti già effettuati». Ma i Comuni si lamentano di tariffe ritenute troppo alte. «Siciliacque – racconta Di Mauro – acquista l’acqua dai disidratati consorzi di bonifica a 5 centesimi al metro cubo, a fronte di una tariffa media nazionale praticata al gestore che è di 20 centesimi, e la rivende a un prezzo compreso fra 79 e 98. Cioè: la compra a un quarto del valore e la rivende con un ricarico medio di 18 volte».

Va però ricordato che il Tar, a giugno scorso, ha dato ragione a Siciliacque contro l’Eas: non è dovuto il canone dell’ex gestore alla nuova società, e lo “sconto” «non determina alcun vantaggio in favore di Siciliacque, riflettendosi esclusivamente sull’abbattimento delle tariffe agli utenti».

Cioè: mezza Sicilia. Di Mauro, a proposito di multinazionali, cita un altro caso-simbolo: Acqua VeraSanta Rosalia, marchio della San Pellegrino, di proprietà del colosso Nestlé. Dal 2007 operava in concessione con la Regione: 100 euro al giorno di royalties («quanto una prostituta sulla Catania-Gela», ironizza l’indipendentista) per una dotazione di 10 litri al secondo nel bacino idrico di Santo Stefano Quisquina, nell’Agrigentino. L’accordo, nel quinquennio, prevedeva la possibilità di raggiungere quota 250 milioni di litri di produzione. «Nel 2009 la società chiede un’altra concessione per raddoppiare il prelievo, ma il presidente Lombardo decide di bloccarla. La Nestlé impugna la delibera e nel 2011 il Tribunale superiore delle Acque di Roma accoglie il ricorso e riapre i termini per l’istanza all’Ente minerario di Caltanissetta». Così, nel luglio del 2013, nella Gurs viene pubblicato il via libera «a 380 milioni di bottiglie di acqua minerale» prese dal ricco bacino che rifornisce l’area dei monti Sicani e Agrigento. «Mentre dai rubinetti degli agrigentini non è mai uscita una sola goccia di acqua potabile e quella lurida è stata razionata fino a quattro ore in 18 giorni», annota Di Mauro. Che sfodera anche tre studi geologici (dei docenti Trevisan, Alaimo e Daima, dal 1963 al 1990) sul bacino acquifero della Quisquina, esteso 48 kmq, che alimenta diversi sorgenti. E «la falda acquifera intercettata non è una nuova risorsa idrica, come invece prescriveva l’originario permesso di ricerca, ma trattasi di una risorsa ben nota».

New entry in arrivo? «Dopo l’acquisizione di un’impresa locale, nell’Ennese, da parte del colosso Ferrarelle, il mercato – “rassicura” Di Mauro – è saturo, il cartello è chiuso». Anche se è giusto ricordare che fra i punti della riforma dell’Ars c’era lo stop a nuove concessioni per l’imbottigliamento.

Il servizio idrico di Agrigento è gestito da Girgenti Acque, 330 dipendenti. «Un assumificio», la definizione del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo, davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti ambientali. La società al centro di indagini su assunzioni e bollette pazze, ma anche su un’ipotesi di truffa per la mancata riparazione della rete fognaria di Ribera nonostante il canone di depurazione chiesto in bolletta. Il presidente di Girgenti Acque, Marco Campione, è stato stato arrestato nel blitz sulle tangenti all’Agenzia delle Entrate di Agrigento. Ma questo, con l’acqua, non c’entra. C’entra, invece, la circostanza che capofila del raggruppamento d’imprese di Girgenti Acque sia Acoset. Che a Catania eroga il servizio a 20 comuni e 350mila cittadini, «con tariffe fra le più alte d’Italia», secondo le associazioni dei consumatori. Acoset entrò anche nella gestione di Caltanissetta, come si legge nel dossier “Privati dell’acqua” di Carlo Ruta, assieme alla “Ibi” di Pozzuoli (fra le sconfitte nella gara) «attraverso l’acquisizione di una quota cospicua dalla Galva del gruppo Pisante».

Lo stesso, indagato per vari reati da più Procure d’Italia, a cui è riconducibile la quota Enit in Siciliacque; lo stesso interessato, assieme ad altri, all’affare degli inceneritori nell’Isola. A proposito di Caltanissetta. Come ricostruisce Saul Caia sul Fatto Quotidiano, Caltacqua (denominazione ufficiale “Acque di Caltanissetta Spa”) è stata fondata nel 2006 da dalla spagnola Aqualia, che si aggiudicò l’appalto da 16 milioni. Il colosso spagnolo controlla il 33% del mercato iberico ed è un pezzo della holding Fcc (”Fomento de Construcciones y Contratas”), presente in 34 Paesi con azionisti vip come Bill Gates e George Soros. Ma la Procura di Caltanissetta non guarda in faccia nessuno: a febbraio, nell’operazione “Acqua Pulita”, sequestrò 15 autolavaggi. I pm riscontarono «valori inquinanti e tracce di metalli pesanti» nei torrenti nisseni. Reti fognarie e depuratore in tilt, ma anche «nessun controllo sui reflui scaricati nella rete», come ha detto il sostituto della Dda nissena, Luigi Leghissa, alla commissione parlamentare d’inchiesta. Confermando, in quella sede, l’apertura di «un procedimento a carico di dirigenti e amministratori» di Caltacqua.

Che s’è sempre difesa, legittimamente, ricordando di aver ereditato «una situazione con grossi problemi di inefficienza». Ma i magistrati, guidati da Lia Sava, vogliono vederci chiaro anche sui 127 milioni di fondi pubblici stanziati per il piano triennale 2006/08 per adeguamenti di depurazione mai realizzati. Soldi ricollocati per il triennio 2013/15. Ultimo accenno al Sud-Est. Con passaggio obbligatorio su Siracusa. Dove, dopo il crac di Sai8 (70 milioni di debiti), l’appalto da 16 milioni è stato vinto da Siam (Servizio integrato acque mediterraneo), che fa capo a un’altra società spagnola, la Dam, “Depuratión de Aguas del Mediterraneo”, in partnership con la Onda Srl. Quest’ultima, amministrata da Luigi Martines (cognato dell’ex assessore regionale Fabio Granata), è controllata al 90% da Sinergia R&S, mentre un 5% a testa è di Eurospark Holding Limited e Rolpena Limited. Società che, a loro volta, detengono Sinergia. Entrambe riconducibili ad Anton L. Tabon, figlio dell’ex speaker del Parlamento maltese, Anton. La Sicilia dei padroni dell’acqua è un giro del mondo fra multinazionali, fondi stranieri, big della finanza planetaria. E poi dicono che l’Isola non attrae capitali stranieri. Non è vero, quando ci sono guadagni facili. Anche se, talvolta, sulla pelle dei cittadini.

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