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Trattativa Stato mafia, la Procura generale ricorre in Cassazione contro le assoluzioni

Impugnata la sentenza emessa il 23 settembre 2021 che aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado. Tra essi Dell'Utri, De Donno, Mori e Subranni

Redazione La Sicilia

11 Ottobre 2022, 12:26

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E’ ancora lontana la parola fine sul processo sulla trattativa tra Stato e mafia. La Procura generale di Palermo, come confermano fonti all’Adnkronos, ha presentato ricorso in Cassazione alla sentenza emessa il 23 settembre 2021 che aveva assolto gran parte degli imputati condannati in primo grado.

Il ricorso è stato firmato dalla Procuratrice generale Lia Sava in persona e dai sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che hanno rappresentato l'accusa nel procedimento di secondo grado. Al momento dalla Procura generale preferiscono il silenzio. 

Lo scorso 6 agosto, dopo quasi anno, erano state depositate le motivazioni della sentenza di appello. La Corte d’assise d’appello di Palermo aveva assolto «perché il fatto non costituisce reato», l’ex senatore Marcello Dell’Utri, il generale Mario Mori, il generale Antonio Subranni e l’ufficiale dei carabinieri Giuseppe De Donno, tutti e tre ex ufficiali del Ros e aveva ridotto la pena a 27 anni per il boss corleonese Leoluca Bagarella. Confermata invece la sentenza del medico Antonino Cinà. In primo grado erano stati condannati a 28 anni di carcere il boss Leoluca Bagarella, a 12 anni Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e a 8 anni per De Donno. 

Per i giudici, come si legge nelle motivazioni, la trattativa fu un’iniziativa improvvida, con un "grave errore di calcolo" che si rivelò "sciagurato", e che fu "intrapresa in totale spregio ai doveri inerenti l’ufficio e i compiti istituzionali". Ma gli ufficiali dei carabinieri, che nell’estate del 1992 presero contatti con l’ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, "furono mossi da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutelare un interesse generale - e fondamentale - dello Stato", cioè "far cessare le stragi", "fermare l’escalatione di violenza mafiosa". 

Il loro "dialogo" con Ciancimino "ebbe sicuramente l’effetto di tramutare quella che fino a quel momento era stata una minaccia generica e indeterminata da parte di Cosa nostra in una minaccia specifica e qualificabile ai sensi dell’articolo 338 codice penale, perché finalizzata a condizionare le scelte del governo, soprattutto in materia di politica carceraria".

E non valutarono, i carabinieri (ecco "il grave errore") l’effetto rafforzamento della volontà di ricatto mafioso alle istituzioni della loro iniziativa (detto volgarmente: visto che con le bombe lo Stato si piegava, mettendone altre si sarebbe potuto ottenere qualsiasi cosa), tanto che poi si verificarono le stragi in Continente.

"Ma non era quello lo scenario che gli ufficiali del Ros si prefiggevano di favorire - dicono i giudici - essendosi adoperati, senza ambiguità, almeno a partire dalla costituzione del gruppo consacrato alla cattura di Riina per giungere ad un risultato opposto: decapitare Cosa nostra, privandola del principale ispiratore e artefice della strategia di attacco frontale allo Stato".