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La capitano medico in missione dalle falde dell’Etna al Polo Sud

Di Maria Ausilia Boemi |

Ha 32 anni ed è di Massa Annunziata, alle falde dell’Etna: e del vulcano ha interiorizzato la forza pacata della ragione e l’entusiasmo di agire. La capitano Letizia Valentino è la prima militare italiana ad avere trascorso 4 mesi in missione in Antartide. Ma tutta la sua carriera professionale è un susseguirsi di primati, fosse anche solo per merito cronologico, come sostiene con modestia «perché le donne sono state ammesse nell’esercito nel 2000, io sono entrata nel 2003, quindi prima di me c’erano poche donne soldato: mi ritrovo quindi ad essere la prima in Antartide, così come sono stata la prima al Nono Reggimento Col Moschin».

Una passione nata quasi per scherzo, sia pur supportata dalla volontà, da ragazzina, di diventare «medico missionario. Un giorno mio zio mi disse: “Ma perché non provi a fare il concorso nell’esercito o in marina? Vai nei teatri operativi all’estero, ma sei inquadrata in una struttura. Non mi aspettavo nulla: ho vinto il concorso, superando tutte le prove, e la crescita è venuta nel tempo». Una crescita iniziata a 19 anni, nel 2003, quando è entrata all’Accademia militare di Modena, scegliendo al contempo Medicina e Chirurgia come università: «Dopo 2 anni sono diventata sottotenente, nel 2009 mi sono laureata in Medicina e poi sono stata assegnata al reparto di forze speciali dell’esercito nel Nono reggimento Col Moschin. Ho lavorato lì per 5 anni come ufficiale medico, poi ho vinto il concorso per la Medicina fisica e riabilitativa all’ospedale miliare Celio di Roma». Anche se dentro di lei continua a considerarsi capitano del Col Moschin: «Il Nono ce l’ho nel cuore, ci sono nata, ci sono cresciuta. Gli incursori dell’esercito sono grandi professionisti e mi hanno accolto, voluta bene, apprezzata».

Un percorso che l’ha già vista tre volte in missione in Afghanistan, dove ha collezionato in totale un anno di permanenza. L’anno scorso, poi, la richiesta di andare in Antartide, su suggerimento di un collega colto al volo perché, come sottolinea, «ho sempre amato le cose un po’ particolari». Come la scelta del Col Moschin, d’altronde: «Nessuno ci voleva andare per la mole e il tipo di lavoro. Io, invece, all’inizio della mia carriera, volevo vedere l’eccellenza dell’esercito». Né avere fatto da apripista è stato difficile: «Io sono una persona che inizialmente sta zitta e osserva, quindi il primo anno passato al Col Moschin stavo in silenzio, osservavo, cercavo di capire. In realtà, una persona professionale, che non dà adito a voci in un ambito lavorativo prettamente maschile, si fa tranquillamente strada».

L’ultima esperienza, dunque, la missione al Polo Sud. In Antartide ci sono due basi italiane: la stazione Mario Zucchelli nella baia di Terranova e la base Concordia su un plateau a 1.500 chilometri dalla costa e a 3.300 metri di quota (che equivalgono a 4.000 metri). C’è poi Italica, la nave scientifica per la ricerca bio-marina. Tanti gli studi che vi si conducono: da quelli sui cambiamenti climatici attraverso i carotaggi del ghiaccio a quelli astronomici e sui micro-meteoriti. «L’esercito, così come le altre forze armate – spiega -, sono partner di Enea e Cnr nel programma di ricerca in Antartide che si chiama Pnra, attivo dal 1985 e finanziato dal Miur: gli scienziati sono supportati da un punto di vista logistico dalle forze armate. Quindi noi partiamo non come ricercatori, ma come supporto (medici, meccanici, elettricisti, trasporti).

L’Antartide è un laboratorio privilegiato e la voglia di andare in questi posti un po’ estremi l’ho sempre avuta: in Afghanistan le temperature toccavano i 50 gradi, l’Antartide è l’opposto. Quando ho fatto domanda mi hanno chiamato, ho superato i controlli di idoneità fisica e l’addestramento di 2 settimane: una sul Brasimone (Appennino tosco-emiliano), con lezioni teoriche e pratiche, come ad esempio quelle dei vigili del fuoco visto che in Antartide, essendo l’aria molto secca, il rischio incendi è elevato; un’altra sul Monte Bianco dove abbiamo vissuto una settimana in sopravvivenza in tenda, facendo cordate e cercando di adattarci al clima».

«La mia spedizione è cominciata a inizio novembre nella base Concordia e si è conclusa a febbraio. Per chi arriva i problemi maggiori sono l’adattamento al freddo, soprattutto per chi lavora all’esterno, e la sindrome d’alta quota perché 3.300 metri al Polo corrispondono a 4.000 metri. Inoltre, anche se lì è un ambiente prettamente asettico – a quelle quote e temperature non ci sono molti virus e batteri – siccome è una comunità chiusa e ristretta, se uno arriva portando un virus la probabilità che si propaghi c’è: quindi, quando è arrivato uno col raffreddore, l’ho messo in quarantena. Una banale sindrome influenzale in quota può infatti degenerare in polmoniti».

C’è poi il problema del giorno senza fine: «La notte la ricreavamo noi, chiudendo le tapparelle quando decidevamo di dormire. Io comunque dormivo molto poco: 4 ore a notte per 2 mesi. L’alta quota crea insonnia – che rende meno vigili nel lavoro – e fa bruciare tanto perché c’è una accelerazione del metabolismo. Ma il problema maggiore è il buio della notte invernale per chi sta a Concordia d’inverno: quando arriviamo a novembre sono molto pallidi, provati. Se rimani in Antartide per così tanto tempo, infatti, uno dei problemi maggiori legati alla mancanza di luce è il deficit di vitamina D, che comporta disturbi ossei ma anche carenza di T3 (l’ormone tiroideo). Il personale che fa l’inverno in Concordia è infatti molto studiato, perché sono gli unici che si possono usare come tester per gli astronauti».

E poi, come medico, la capitano siciliana fungeva un po’ da psicologa, oltre che curare i traumi: «Con la carenza di ossigeno, infatti, la capacità di concentrazione si riduce, la persona è più distratta e quindi i traumi sono molto più facili. Il freddo favorisce le contratture, favorisce i blocchi osteoarticolari e soprattutto muscolari, perciò la persona tendenzialmente si fa più male. E se ti fai male lì, le ferite guariscono molto più lentamente». L’altro problema con cui fare i conti è il sovraffollamento: «Siamo passati da una trentina di persone a un picco di 70-80. La base è su tre piani e due torri, ma l’ambiente è molto ristretto, tanto che alcuni dormivano esternamente tra la base estiva (struttura aperta solo in estate perché d’inverno, a -80 gradi, i tubi congelano) e le tende riscaldate, dove all’interno si dorme bene, però non c’è il bagno».

Un’esperienza molto completa, quella della capitano siciliana, «perché sono atterrata sul pack, quindi sul mare, alla base Mario Zucchelli e due giorni dopo mi sono trasferita a Concordia. Nell’ultimo mese mi hanno spedito a Proud’homme, che è una base italo-francese in un’altra zona sulla costa, a disposizione del personale deputato alla organizzazione della cosiddetta traversa: un convoglio che, attraversando l’Antartide per 1.500 chilometri con cingolati, trasporta in grossi container mezzi e materiale a Concordia. Una piccola isola, in cui le comunicazioni sono possibili solo con l’elicottero. È stato molto bello perché nella parte dell’Antartide dove ero stata fino a quel momento (la base Concordia) non c’erano animali, non c’era niente, è completo deserto bianco. A Proud’homme ho invece potuto vedere finalmente foche e pinguini. Lì ho fatto meno il medico, ma mi sono resa disponibile per la movimentazione di mezzi, tipo cingolati, o aiutavo il cuoco francese. È stata sicuramente un’esperienza diversa, ma molto bella».

E quando le si chiede quale è stato il momento più emozionante, la capitano Valentino non ha dubbi: «Quando sulla nave di rientro dall’Antartide ho visto nuovamente il buio della notte, dopo 4 mesi, e poi quando in contemporanea ho potuto ammirare l’aurora australe: guardare questi flussi verdi, verdastri, verdini che si muovono nel cielo, nella notte, creando figure, è stato emozionante. Ero ipnotizzata». Come episodio divertente, invece, ricorda quando un glaciologo, che con un carotaggio era riuscito ad arrivare a ben 60 metri di profondità, che in quel contesto corrispondono a 2.000 anni fa, quindi ai tempi di Cristo, «è venuto a mensa, ha iniziato a spargere questo ghiaccio sciolto un po’ a tutti, benedicendoci, quasi come un dio. Poi abbiamo bevuto con il ghiaccio di 2000 anni fa».

E se nei sogni nel cassetto di questa volitiva capitano siciliana c’è la Libia, delle sue missioni all’estero ricorda come ostacoli maggiori il fatto che, «nonostante sia siciliana, in Afghanistan quando fa caldo non si resiste: in tenda, a +50 gradi, puoi veramente morire. Di contro, da un punto di vista dell’isolamento è molto più pesante l’Antartide: avevo solo 10 minuti a settimana per chiamare mamma, non avevo internet o era lentissimo. Anche se depurarmi da cellulari, internet, Fb in fondo non mi è dispiaciuto». Una siciliana in prima linea: ma come vive la sua famiglia questa professione? «Ormai mia madre ha perso le speranze, ancora si chiede se sono figlia sua. Però ho la fortuna di avere una famiglia splendida che mi sostiene in tutto. E ogni volta che torno, apprezzo ancora di più il tempo che trascorro con mia madre, con i miei due fratelli, le mie cognate e i mei tre nipoti, tutti meravigliosi. La mia forza maggiore è stata sempre la mia famiglia che c’è sempre stata: senza, non sarei ciò che sono oggi».

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