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Un siciliano su tre studia fuori sede: i giovani costretti alla fuga

Di Daniele Ditta |

Per non rinviare di anno in anno il confronto con la realtà, per carità difficile pure in altri contesti regionali, sempre più studenti scelgono di iscriversi in un ateneo che si trova oltre lo Stretto.

Succede così che lo sforzo fatto dalle quattro Università siciliane – Catania, Palermo, Messina ed Enna – per garantire più qualità nell’offerta formativa e servizi migliori, spesso e volentieri, risulti vano.

LA LETTERA: COSTRETTA A RINUNCIARE ALLE MIE RADICI

Basta incrociare i dati disponibili, diffusi tra gli altri da Almalaurea (consorzio interuniversitario che conta l’adesione di 74 atenei italiani) e dallo stesso ministero dell’Istruzione, per averne prova concreta e capire in quale scenario estremamente precario e con poche speranze ci si muove e si muovono i giovani studenti siciliani.

Se basarsi sulle prospettive di lavoro è il cardine su cui orientare la propria scelta, l’Università di Catania è quella che assicura – seppur di poco – maggiori chances. In base all’ultima indagine sulla condizione occupazionale dei laureati, condotta appunto da Almalaurea, il 33% degli intervistati ha dichiarato di avere un lavoro. A Palermo, il tasso di occupazione dopo la laurea scende al 30 %; mentre a Messina è del 29,7%. Fanalino di coda, la Kore di Enna, che registra il 24,5% di ex studenti in attività lavorativa. Catania primeggia anche rispetto alle tipologia contrattuale che i suoi laureati riescono ad ottenere. Il 29,8% ha infatti firmato un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

La percentuale non è di certo alta, ma rivela la capacità del tessuto produttivo etneo di garantire maggiori opportunità e condizioni di lavoro migliori rispetto alle altre realtà siciliane. Palermo si posiziona subito dopo con 28,8% di contratti a tempo indeterminato, segue Messina con il 27,5% e poi Enna col 25%.

La nota dolente sono le retribuzioni dei laureati e le medie rendono bene l’idea: 1.029 euro netti al mese a Catania, 1.003 euro a Palermo, 911 euro a Messina, 854 euro a Enna. Se poi ci aggiungiamo che le donne, a parità di livello di formazione universitaria raggiunta, sono molto meno pagate, allora subentra pure la discriminazione.

Pochi contratti di lavoro stabili, stipendi per certi versi offensivi e scarso supporto economico garantito nel percorso di studi (più di 6 studenti su 10 in Sicilia non percepiscono la borsa di studio pur avendone diritto) spingono i giovani a scappare dall’Isola, prim’ancora di mettere piede in un’Università. Della serie inutile farsi illusioni, meglio puntare verso contesti economicamente più competitivi per aprirsi la strada del lavoro.

Sono circa 50mila gli studenti siciliani iscritti negli atenei del centro-nord: un universitario su tre. Perché, stando agli ultimi dati messi a disposizione dall’anagrafe degli studenti del ministero dell’Istruzione, per l’anno accademico 2016-2017, gli iscritti nelle Università dell’Isola sono stati poco più di 105.198 (su 156.639), ovvero il 67,2%.

Ma il numero di giovani che continuano a mantenere la residenza in Sicilia e studiano negli atenei di tutta Italia cresce più di quanto non diminuiscano gli iscritti in Sicilia. A Messina, ad esempio, le immatricolazioni sono cresciute del 13% nell’anno accademico 2016-2017, a Palermo del 9%, sostanzialmente stabili a Catania (-1%), in calo a Enna (-9%). Chi resta non sempre riesce a portare a termine il percorso di studi. In Sicilia, se consideriamo i nati tra il 1982 e il 1990, il 30% di chi frequenta l’Università finisce fuori corso. Come dire, imboccare la strada verso l’abbandono degli studi. Con l’aggravante di presentarsi già grandi, e senza aver acquisito una specializzazione, allo step più ostico nella vita di un adulto in Sicilia: la ricerca di un lavoro.

Le considerazioni a margine sarebbero tante. Ci limitiamo – tenendoci lontani dai soliti luoghi comuni (per esempio che le competenze fornite ai giovani dalle nostre università non rispondono alle esigenze delle imprese) – a sottolineare che esiste una difficoltà tutta interna al sistema economico siciliano ad assorbire forza lavoro con un’istruzione elevata, di rango universitario. Non a caso, studiosi ed esperti parlano di sovraistruzione: ovvero chi è impegnato in un’attività lavorativa per la quale il possesso della laurea è non necessario formalmente o addirittura eccessivo per le mansioni che svolge.

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