«Così sono uscito dal tunnel della cocaina», il racconto del deejay catanese
Una testimonianza forte: come si comincia e come si può finire
droga e soldi generico
Lo straordinario recupero in mare di due tonnellate di cocaina, da parte della Guardia di finanza, ha subito riaperto il dibattito. Da una parte c’è chi chiede un giro di vite contro chi traffica o spaccia sostanze stupefacenti, dall’altra chi invoca genericamente la liberalizzazione delle droghe per determinare, almeno indirettamente, un calo del giro d’affari delle organizzazioni criminali attive in questo settore.
Marcello (lo chiameremo così, con un nome di fantasia), che ha superato gli “anta” da un po’, non ha voglia di schierarsi, affrontando discussioni da “massimi sistemi”. Ma un’opinione personale la coltiva. L’opinione di chi ha lottato con tutte le proprie forze per mettersi alle spalle la schiavitù della tossicodipendenza. Riuscendovi anche, a quanto pare, seppure non senza difficoltà.
«Non so quale dei due “partiti” abbia ragione - esordisce - ma so che oggi è pericolosamente diverso rispetto a quando ero ragazzino. Le “canne”, ad esempio, sembrano essere accettate dalla società. E così se io fumavo di nascosto oggi i ragazzi le fanno in piazza, alla luce del sole. Lo fanno per socializzare, per essere accettati dal gruppo, con la grave convinzione che queste sostanze non siano dannose. Purtroppo è il primo passo verso l’ingresso in una spirale da cui è impossibile uscire con facilità».
Ma lei vi è riuscito.
«Sono stato fortunato, perché ho avuto tante ricadute. Ma ci sono stati degli episodi importanti, degli incontri, che mi hanno fatto comprendere che stavo percorrendo una strada sbagliata e che rischiavo di finire male. Molto male».
Quali?
«Intanto un dottore del Sert molto preparato. Poi un amico che era riuscito a venire fuori dal tunnel della tossicodipendenza dopo avere “incontrato” Gesù e che mi ha convinto a entrare in comunità. Infine la donna che è poi diventata la mia compagna: è stata lei che ha saputo infondermi la forza per andare avanti in questa battaglia».
Non i suoi genitori?
«Purtroppo no. Quando ho cominciato a drogarmi loro erano come gran parte dei genitori di questa epoca: distratti, assorti dai loro impegni e anche dai loro problemi. Arrivavano a casa stanchi, provati dalla frenesia del quotidiano, e non pensavano che i loro figli, che magari possedevano tanto ma che al contrario potevano anche non possedere alcunché, potessero essere preda di solitudine o di inquietudine. Era ed è ancora oggi, quella, l’anticamera della droga».
«Ecco - prosegue Marcello - ai genitori di questa epoca mi sento di suggerire proprio questo: aiutate i vostri figli a tirare fuori le loro emozioni, a confrontarsi. Seguiteli con attenzione e, se comprendete che si sono avviati lungo una strada tanto tortuosa quanto tenebrosa, sosteneteli, per quanto senza strafare. E’ un lavoro durissimo, me ne rendo conto. Ma va fatto. Tenendo presente che “lo smetto quando voglio” non esiste. Che da soli è difficile uscirne. E che le comunità non sono posti in cui si viene internati, ma luoghi in cui ogni ragazzo potrà riscoprire e tirare fuori la parte migliore di sé».
Lei come ha cominciato?
«Stavo tanto in giro. Per ammazzare il tempo e per sentirmi grande. Guardavo con ammirazione i giovani con qualche anno in più, rispetto a me, che sembravano avere il mondo in mano: ho cominciato con le canne ma sapevo che c’era dell’altro e volevo provarlo. Un giorno andai a spasso con alcuni di loro, uno tirò fuori delle siringhe che presto furono riempite di eroina: per non restare indietro rispetto agli altri, per non essere additato come lo stupido della comitiva, me la iniettai, dando inizio al mio calvario».
«In principio - racconta - riuscii a mascherare la mia condizione. Facevo il dee jay e in discoteca ero sempre circondato da tante persone: io frequentavo quelle di classe sociale un po’ più elevata. Accompagnandomi a loro, godendo della loro stima, mi sentivo realizzato. Ma quanto la serata finiva e la comitiva si scioglieva cadevo nello psicodramma. Avevo bisogno di qualcosa che quasi mi anestetizzasse. E la “strada” era sempre la stessa».
Quando ha deciso di entrare in comunità?
«Dopo che mia madre, una volta resasi conto di tutto, mi ha buttato fuori di casa».
«In realtà - precisa - mia madre si era resa conto di tutto molto tempo prima. Ha pure provato ad allontanarmi dalla droga ma non vi è riuscita. A un certo punto mi ha detto “piuttosto che vederti morire preferisco perderti…”. Ha dato un taglio netto e questo, per quanto mi abbia creato una serie inimmaginabile di problemi, ha rappresentato la scossa che mi ha fatto valutare la comunità. E’ stata la mia salvezza, anche se devo ammettere che io dalla comunità sono entrato e uscito più volte prima di smettere definitivamente. Alla fine il rapporto con mia madre sono riuscito a recuperarlo».
Ritiene di poter essere da esempio?
«Questo non lo so ma frequentando la comunità ho compreso che nessuno è realmente irrecuperabile. E a chi oggi si droga, a chi non vede la luce in fondo al tunnel, posso dire soltanto quanto sia bello essere lucidi e vivere una vita a colori. Non lo credevo neanch’io, ma è possibile davvero…».