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La Sicilia e il mestiere più antico del mondo  Musumeci si “svela” e dice sì a case chiuse

Di Mario Barresi |

CATANIA – «Se fossi un parlamentare della Repubblica firmerei subito un disegno di legge per controllare e regolamentare la prostituzione in Italia». Ma lui è “soltanto” il presidente della Regione. Nello Musumeci rilancia quella che definisce «un’idea identitaria della destra politica», ma lo fa – da uomo delle istituzioni – con una lunga serie di “se” e di “ma”. «Per prima cosa va garantita la dignità e la libertà della donna. Ma se una persona decide liberamente di esercitare il meretricio, lo Stato deve garantire la salute, la sicurezza e il pagamento delle tasse». E il governatore, pescando nell’album in bianco e nero dei suoi ricordi adolescenziali, racconta anche la sua “prima volta” («Ma fu anche l’ultima», assicura) in una casa d’appuntamenti di Catania, una delle tante rimaste aperte anche dopo la legge Merlin.

Presidente, si riparla di riapertura delle case chiuse. Da sempre un cavallo di battaglia della destra.«Io sono da sempre un sostenitore dell’idea identitaria della destra politica di regolamentare la prostituzione. E non è un tema di destra, ma di buon senso. Un’esigenza dettata da diversi profili. Ma prima devo fare una premessa».

Prego….«Le istituzioni hanno il dovere di combattere la prostituzione sin dalla sua essenza, recuperando le donne che la esercitano. Molto spesso lo si fa per ragioni di debolezza: un matrimonio fallito, una delusione d’amore, un bisogno economico o l’induzione da parte di amiche. Ecco, c’è un primo dovere di riportare queste donne sulla retta via, con formazione, sostegno economico e supporto psicologico».

Ma molto spesso più che una scelta sbagliata è una costrizione. Quasi una schiavitù.«Sì, e questa è la seconda premessa. Bisogna combattere la piaga degli sfruttatori che costringono le donne a esercitare sotto costante minaccia, in un clima di intimidazione. Io, quando torno a Militello, percorro la Statale 385 e vedo queste ragazze di colore, sotto il caldo afoso o col rigore del freddo, sul ciglio della strada ad aspettare che si fermi qualcuno. Sono schiave del racket della prostituzione, insieme alla droga uno degli affari più floridi della criminalità. Esercitano in condizioni disumane, rischiando ogni giorno sulla propria pelle di incappare in clienti pregiudicati e spregiudicati. Ed è questo che si eviterebbe con la regolamentazione».

Lei dice: chi proprio vuole farlo, lo faccia in condizioni di legalità.«Abbiamo tutto il diritto di sperare che una donna non si prostituisca e dobbiamo fare di tutto affinché non lo faccia. Ma se prostituirsi è una scelta consapevole, chi la compie dev’essere sotto il controllo dello Stato e non del magnaccio. Deve farlo in condizioni di sicurezza personale e igienico-sanitaria. E non deve pagare la tangente al protettore, ma le tasse. Diventando un contribuente assai significativo per l’erario pubblico. La Regione non ha potestà legislativa in materia, ma se fossi un parlamentare nazionale firmerei subito un ddl per la regolamentazione della prostituzione. E, sia chiaro, questa è un mio pensiero, una posizione personale».

Sono passati sessant’anni dalla chiusura delle case di tolleranza. Lei, all’epoca, era un bambino….«Avevo tre anni, andavo all’asilo…. Ma, come tutti sanno, l’entrata in vigore della Merlin non mise fine all’attività dei bordelli. E io conservo ancora un ricordo adolescenziale…».

Siamo curiosissimi. Ce lo racconta, anche censurato?«Avevo sedici anni. E accompagnai un mio compaesano, più grande di me, a Catania. Non mi disse dove stavamo andando. Entrammo in un vecchio palazzo di via Teatro Massimo, di cui ricordo ancora il forte odore di urina di gatti. Salimmo al primo piano e ci accomodammo su un divano. Lui, quasi subito, entrò in una stanza. Che mi colpì perché all’ingresso c’era scritto il nome di una donna con la sola iniziale del suo cognome: “Teresa C.”, se non ricordo male. In quel momento capii che si trattava di una casa d’appuntamenti».

E a quel punto che fece?«Restai in un’enorme sala a sfogliare un’elegante rivista, fin quando il mio amico militellese uscì dalla stanza di “Teresa C.”, visibilmente compiaciuto e soddisfatto. Forse leggendo sul mio volto una sorta di invidia, mi disse: “Vuoi andarci tu?”. E io gli risposi subito: “No”. Non tanto per carenza di voglia, ma per uno stato di necessità. La prestazione, all’epoca, costava settemila lire. E io, da squattrinato studente di scuola superiore, avevo in tasca, spiccioli compresi, circa tremila lire. “Te li presto io”, disse il mio amico. E così fu. Il mio primo e ultimo debito, ma soprattutto la mia prima e ultima volta con una prostituta. Una specie di svezzamento, che arrivò subito alle orecchie di mio padre. Il capolinea della Sais era a poche decine di metri da lì. “Ti hanno visto uscire dal palazzo dove c’è il bordello, che ci facevi?”, mi chiese. E io utilizzai un comodo alibi: “Papà sono salito alla Cisnal a risolvere alcune pratiche”, risposi riferendomi al sindacato di destra che aveva l’ufficio a Catania proprio in quello stesso palazzo di via Teatro Massimo».

E suo padre le credette?«Fece finta di credermi, io non gli chiesi mai più se mi avesse creduto. Eppure, frequentando davvero quel palazzo per andare alla Cinsal, in tutti gli anni a seguire non entrai mai più nel bordello di “Teresa C.”…»

Twitter: @MarioBarresi

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