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Cronaca

Addio al maestro del colore che ha fermato l’infinito sulla tela

Di Elisa Mandarà |

Azzurro infinito azzurro, carissimo Piero. Così è naturale – quasi consolatorio – pensare la dimensione altra che oggi ti accoglie aerea, tersa, sostanziata di quella pienezza d’astrazione che hai posato sui tuoi mari, sui tuoi cieli. Senza pesi, lieve come la parola gentile che ti ha sempre connotato, e dolce come la piega fluida del tuo magistrale pennello.

Non so dove volino le anime dei poeti, chissà se si rifonda in armonia cosmica il cuore degli artisti più grandi. L’altrove – come tu dicevi – è parte di quel “mistero” che non chiede rivelazione, quel mistero che hai perseguito e conquistato tra le ombre palpabili delle tue invenzioni.

Difficile circoscrivere, in questo momento di piena del sentimento di dolore, la parabola del tuo percorso, estetico civile. La tua stagione ultima ha decantato ogni presenza oggettiva, mare e cielo sono purezza astratta di colore, luce, regione sincretica di verità fenomenica e noumeno. La tua arte ha sospeso di indicibile definitiva eternità ogni melodico spargimento lirico, asciugando la poesia dell’infinito in un ambito solo pittorico, che vive al di là ed emancipato da ogni parola letteraria o filosofica.

Chiudiamo gli occhi e passiamo in rassegna la tua sconfinata produzione, il cursus espressivo di Piero Guccione. È sincera e crescente l’emozione, che le innumerevoli visioni e icone sollecitano, guardando pure alla peculiare concezione che hai coltivato della misura del tempo. Oggi che il tempo si è fermato, sulla stradina di campagna che porta alla casa studio di Quartarella, pensavo a come non sia mai stata una guerra bensì una relazione complice quella che la tua opera ha ingaggiato con il tempo. È il tempo che ha dato spazio alla compiutezza pacificata di stagioni e sillogi molteplici, è nel tempo che ogni matrice culturale con la quale la tua ispirazione ha desiderato dialogare, si è manifestata nella sua intimità di moto, è col tempo che ciascuno dei tasselli compositivi del cosmo guccioniano si sono impiantati stabili in una dimensione storicizzabile, nella sua ampia ricchezza poetica e formale.

Con la sosta lunga che impone la forza di ogni tuo quadro, riandiamo alla metà degli anni Cinquanta, a “Cortile” del ’55 di aria dechirichiana, poi ai primi “Paesaggi”, alla Corriera (1957), a opere certo sensibili del contesto neorealista, ma già aperte a lampi cinetici e sottili distorsioni del reale, che più pienamente caratterizzeranno il sapore complessivamente espressionista dei primi anni Sessanta, quando sentiremo pulsare la tua corda anche di Bonnard, di Bacon, di Sutherland e Nolde. Quale invenzione di spazialità nei “Balconi” e “Giardini”, che s’affacciano sul sempre caro Mediterrananeo, negli “Interni-esterni”, nei “Cancelli”. Quanto proprio l’impatto della Pop, penso alla “Volkswagen”, struttura e specchio naturalistico, e quanto individuale la militanza in situazioni di cenacolo, come il Pro e il contro. Poi nuove esistenziali sospensioni colmano le “Attese di partire”, metafisiche e hopperiane. Quindi il sentimento degli autori cari, lo spirito di Friedrich, nei meravigliosi d’aprés, da Michelangelo, dal caro Pontormo, Caravaggio, Velasquez, omaggi amorosi ma anche campionature vive della fantasia formale e ideale guccioniana.

Il trasporto della natura e della natura affettiva delle origini, vibra di corde particolarmente liriche nei pastelli sul Carrubo, l’albero che muore e l’albero dolente Dopo il vento d’occidente, metafore di infermità di una Sicilia che esige voce engagé, che lamenta denunce ambientali, medium l’eleganza di plastiche ripensate come materia pittorica, medium, ancora, la Malinconia delle pietre. È dunque amore il mare, che dagli anni Settanta è divenuta la regione più connotativa e insieme più ardua della tua ricerca, il terreno di fusione di mobilità e fissità, di astrazione e figurazione, di tenuità ed energia, di finito e infinito.

«Il tempo che scorre, il tutto che passa, mi dà pace». Così scrivevi nel 2005, e le parole emergevano dal fondo bianco della pagina, allo specchio con le linee sinuose e sintetiche d’un disegno – partitura altra e tutt’altro che secondaria dell’eccellenza del tuo stile. Un epigramma essenziale, antiretorico, diremmo di immediata leggibilità, schiudeva alla comprensione di una concezione matura, compiuta, spirituale e razionale, che stringeva in un unicum il piano esistenziale e quello estetico, perché tu, da pittore puro, vocato all’arte ma pure sensibile alle cose del mondo, avevi cancellato la demarcazione necessaria tra i due ambiti, tra arte e vita.

Una luce splendida accompagnava la visita di oggi a Quartarella, la contrada immersa nella campagna tra Modica e Scicli, dove avevi stabilito il tuo studio. Dopo oltre vent’anni anni di permanenza a Roma, dove ti eri affermato quale pittore nazionale, decidevi il rimpatrio nella tua Scicli, nucleo caldo della memoria poetica e dell’ispirazione, dove aveva inizio nell’ultimo scorcio degli anni 70 la storia del Gruppo di Scicli, in una vicenda che chiama in causa idealità non solo estetiche, ma anche etiche e civili, motivazioni che hanno accompagnato trentacinque anni di sodalizio, all’insegna di un colloquio sull’arte, sulla politica, sull’impegno, condiviso in seno a relazioni primariamente d’amicizia. Rifuggendo dalla esposizione mediatica, abbracciavi una misura più naturale della vita, sostanziata dei giorni con la tua amata compagna indissolubile Sonia, la finissima pittrice Alvarez. Da questa specola di Mediterraneo hai dato parola al tuo occhio fecondo, motore primo del corpus grandioso della tua opera.

Con eleganza hai posato per tempo il pennello e la tua voce, consegnando alla storia la mirabile compiutezza del tuo viaggio magnifico nella pittura e nella poesia. Saluti la terra, vestito d’azzurro e stringendo tra le dita pennello, matita, pastello, dal tuo terrazzo, che anche oggi allarga vista e cuore a quanto ci ha ammaliato del tuo lavoro, la campagna senza fine col carrubo caro, la marina che lontana, l’ibisco vermiglio e quello giallo solitari nel giardino, due linee correnti tra cieli e mari, che non possono toccarsi nemmeno nello spazio del tutto-possibile, l’infinito, perché l’infinito oggi s’è fermato sulla tela.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA

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