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Governale: «La cultura è legalità, conta come una divisa o una toga»

Il generale dell’Arma già a capo di Ros e Dia riprende il tema toccato da Giuseppe Ayala nell'inserto di fine anno del quotidiano "La Sicilia"

Gerardo Marrone

07 Gennaio 2024, 13:09

Giuseppe Governale, ex comandante Ros

Giuseppe Governale, ex comandante Ros

Stato e antistato. Molte le battaglie vinte sulle mafie da “siciliani in trincea” come il generale palermitano dei carabinieri Giuseppe Governale, che oggi compie 65 anni e lascia il servizio attivo. «Ma l’Arma, no. Quella non si lascia mai!», esclama l’ex comandante del Ros, il Raggruppamento operativo speciale, e della Direzione investigativa antimafia.
Battaglie vinte. Non ancora la guerra. Contro il “virus-Cosa Nostra” non bastano donne e uomini in toga e in divisa: «Il miglior medicinale - afferma il generale Governale - è la cultura. È aprire le menti. Diceva Ignazio Buttitta: “Rapi a mirudda. Accussì trasi il sole che t’asciuga l’umidità dell’ignoranza”. Il sole, la cultura. L’ignoranza, la mentalità mafiosa».

La cultura della legalità. La “legalità conviene”: è uno dei titoli-chiave nell’inserto di fine anno pubblicato dal nostro quotidiano. Quanto, però, questo principio di civiltà fatica a radicarsi, a diventare patrimonio comune, ad esempio in alcune aree della nostra Isola?

«La convenienza della legalità è certamente uno degli argomenti più importanti e delicati posti a fondamento del senso di cittadinanza. Un aspetto culturale che purtroppo fatica a svilupparsi perché molti pensano che violare le regole, passarci sopra o sotto, li renda furbi e sia remunerativo, non solo sul piano economico».

I soliti furbetti…
«Fare il furbo, cercare l’amico, sono pratiche che apparentemente avvantaggiano ma, alla lunga, quando hai un problema, premia l’affidabilità, la credibilità delle persone perbene. La scuola può e deve fare di più nel far apprezzare ai nostri ragazzi come sia necessario essere affidabili. Ecco il valore della legalità. L’affidabilità. Conviene e ci fa vivere sicuri se ci fidiamo l’uno dell’altro».

In questi ultimi due anni lei ha guidato le Scuole Carabinieri in Italia. Come si preparano ragazze e ragazzi in divisa a trasmettere sul territorio valori e dimensione dell’”essere Stato”?
«Non è di certo un’impresa semplice. Ma oggi noi ci muoviamo nella convinzione che al centro della formazione ci debba essere prima di ogni cosa il rapporto con il cittadino. Il cittadino deve fidarsi di noi. Il Generale Dalla Chiesa, nel suo primo intervento quale Prefetto di Palermo, parlò del potere, affermando che “se esiste un potere questo è solo quello dello Stato”. Però, lo Stato deve essere credibile ed affidabile per il cittadino».

Il nostro Paese sarebbe decisamente più credibile se riuscisse a debellare boss e piovra. Un miraggio?
«Soprattutto dopo il 1992 l’azione giudiziaria nei confronti delle mafie si è accentuata e, per la prima volta, siamo passati in vantaggio. Cosa nostra è indebolita. La mafia siciliana pensa con il tempo di recuperare: il tempo dell’incudine, sperando di tornare a percuotere, di essere martello. Lo potrà fare se non si inaridiranno le sue linfe vitali, i giovani. Che tuttora tendono a crescere, purtroppo, nella cultura mafiosa».

Giuseppe Ayala ha scritto sul nostro quotidiano che la diffusione delle mafie «è stata indubbiamente favorita dall’enorme tasso di illegalità diffuso in tutta Italia». Tra evasione fiscale e corruzione, siamo ancora lontani dall’essere un Paese normale?
«Si tratta di due fenomeni criminali particolarmente odiosi. Entrambi vanno combattuti con grande determinazione. In proposito, già nel 1961, ne “Il giorno della civetta”, Sciascia, come sempre profetico, nel confronto tra il capitano Bellodi e il mafioso, don Mariano Arena, farà balenare all’ufficiale che, per contrastare efficacemente la mafia, occorra anche “piombare di colpo sulle banche; mettere mani esperte nelle contabilità …; revisionare i catasti … annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie… e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso”. Quindi, come diceva Falcone, “Follow the money”»!

Nella sua lunga e prestigiosa carriera, lei è stato anche ai vertici dell’Arma a Catania e Palermo prima di arrivare ai vertici di Ros e Dia. Quale esperienza l’ha segnata di più?
«Come ogni esperienza, tutte. Certo, arrivai a Catania qualche mese dopo i tragici scontri al Cibali e la morte del povero ispettore Raciti. Più in generale, un contesto sempre delicato e probante per ogni funzionario dello Stato. Poi, ovviamente, la Legione di Palermo, la mia città, ogni altro commento in termini di soddisfazione personale è superfluo».

Il Ros, la Dia.
«Il Ros, la struttura investigativa di punta dell’Arma che ha fatto bene, compattandosi nei momenti di difficoltà, anche quando gli sforzi parevano non premiare. Alla fine, i risultati sono giunti, proprio un anno fa con la cattura di Matteo Messina Denaro. La Dia, infine, un grande privilegio. La struttura interforze voluta da Giovanni Falcone che ritengo imprescindibile per aggredire coralmente il fenomeno delle mafie. Proprio in quest’ultima circostanza, mi sono sentito come un allenatore della Nazionale alla guida di bravi giocatori».