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Alganesh Fessaha: «Vi racconto che inferno è l’Eritrea»

Di Luigi Mula |

Una bimba di quattro anni in cerca della madre, uno sceicco salafita che libera i profughi dai trafficanti ed una donna coraggiosa in prima linea per i diritti umani. Siamo in Eritrea dove dal 1991, anno in cui il paese del Corno d’Africa ha conquistato l’indipendenza, vengono commessi numerosi crimini contro l’umanità. È quanto ha raccontato ad Agrigento la dottoressa Alganesh Fessaha (nella foto di Carmelo Capraro insieme all’Arcivescovo di Agrigento, Cardinale Francesco Montenegro), ospite della Caritas diocesana, in occasione della giornata mondiale del rifugiato.

Alganesh Fessaha è nata in Eritrea, ma da diversi anni vive a Milano. Fondatrice e presidente dell’associazione “Gandhi”, organizzazione non governativa che aiuta e supporta donne bambini disagiati e vittime di abusi in vari paesi dell’Africa ed in Europa, è in prima linea nella lotta contro il traffico di esseri umani, rapimenti e torture dei rifugiati africani nella penisola del Sinai, in Libia e in Sudan.

«Dopo essere fuggiti dall’Eritrea – racconta Alganesh – i migranti vengono catturati nel deserto del Sinai e in Sudan. Caricati su camion, attraverso le rotte desertiche, i clandestini giungono nei lager libici. In molti casi i trafficanti chiedendo riscatti molto elevati; il mancato pagamento comporta l’uccisione, lo sfruttamento per il traffico di organi, la costrizione alla prostituzione».

Con un tasso di riconoscimento della richiesta di asilo politico del 93%, ricordiamo, gli eritrei sono i “rifugiati per eccellenza”, tra i pochi, insieme a siriani e iracheni, ad essere entrati di diritto nel programma di ricollocamento in Europa.

La crescita esponenziale del numero dei profughi, soprattutto se rapportata al numero degli abitanti del paese, che conta circa 5 milioni di abitanti, evidenzia ancora di più la gravità della situazione. L’inconfutabile verità è che gli eritrei stanno abbandonando il proprio Paese in proporzioni molto più alte rispetto ad altre nazionalità.

La Commissione d’Inchiesta del Consiglio sui Diritti Umani dell’ONU, dopo aver intervistato centinaia di rifugiati, ha accusato l’Eritrea di gravi crimini contro l’umanità: servizio militare permanente, riduzione in schiavitù, reclusione, sparizioni forzate, tortura e altri crimini come persecuzioni, stupri e omicidi sono le accuse rivolte al governo di Asmara. La responsabilità del governo è richiamata anche in diversi rapporti di Amnesty International e Save The Children.

In questa intervista Alganesh ci parla della sua Eritrea e racconta l’incontro con lo sceicco salafita Awwad Mohamed Ali Hassan e la storia di una bimba, conosciuta nel campo profughi di Mai Aini in Etiopia, fuggita dall’Eritrea con i sui fratellini per studiare, ma che “la notte non riesce più a dormire” perché in cerca della madre.

Dopo gli arresti e le detenzioni arbitrarie, oggi il regime eritreo di Isaias Afewerki ha chiuso anche le cliniche cattoliche.

«Il dittatore non ha chiuso solamente gli ospedali ma ha anche fatto arrestare, prelevandoli dal loro monastero, cinque monaci ortodossi. Si parla solo delle cliniche cattoliche, ma ci sono torturati in prigione, anche, questi cinque frati ortodossi».

Come spiega questa recrudescenza?

«Le due religioni riconosciute in Eritrea sono la Cristiana e la Musulmana. Ritengo, però, che il regime abbia il terrore che qualunque luogo, che sia di culto o no, diventi luogo di sovversione. C’è il movimento della diaspora eritrea che oggi, in tutto il mondo, dice basta. Questo movimento ha radici anche all’interno dell’Eritrea ed oggi il regime si sente braccato e reagisce con la violenza e la repressione. Non credo si possa cospirare all’interno di una chiesa, di una clinica, dove vengono curati i poveri, o di in un monastero dove vivono frati in clausura. Ma il dittatore, dopo gli eventi in Sudan, in Libia, in Somalia ed in Etiopia, avverte che qualcosa sta cambiando, sente sempre più vicina la sua fine ed ha paura».

Si segnala anche un crescente e pervasivo processo di militarizzazione della popolazione eritrea.

«L’obbligo di servire a tempo indeterminato l’esercito è una delle ragioni per cui migliaia di eritrei fuggono da questo piccolo Paese. C’è, per questo motivo, un malumore anche tra i giovani che svolgono il servizio militare obbligatorio permanente (da 16 ai 50 anni). Si tratta di una leva di 18 mesi, di cui 6 di addestramento e 12 di servizio militare effettivo, che tuttavia viene usualmente prolungato senza alcun termine di scadenza. Se lei ha la fortuna può uscire a 50 anni, ma un uomo dopo i 50anni cosa può fare? Non si è formato una famiglia, non ha un lavoro, non ha vissuto. Anche in questo caso c’è un movimento ed il regime si sente insicuro. Allora, qualunque luogo diventa un problema».

La leva è remunerata?

«I militari vengono pagati 20 euro al mese circa, da 200 a 500 nacfa (moneta Eritrea ndr), a seconda del grado. Ai ragazzini non gli danno niente. Ma, soprattutto, questi giovani vengono segnati dal distacco familiare. Per diversi anni, non rivedranno più le loro famiglie. Ci sono i ragazzi giovani che arrivano anche in Etiopia , non vanno solo in Sudan ed in Libia, 120 mila eritrei sono, già, fuggiti con un convincimento: “ Se io rimango in Eritrea è la morte, se scappo posso morire o posso sopravvivere”».

Dopo la pace con l’Etiopia il periodo di leva non si è ridotto?

«Con l’Etiopia c’è una pace aleatoria, una pace superficiale dove non esistono accordi veri e non vengono rispettati i confini stabiliti dai patti di Algeri. L’obiettivo vero di questo governo è stato quello di far scappare la gente dal Paese. Oggi, dopo che sono fuggiti in tanti, ha chiuso le frontiere».

Che ruolo gioca l’Europa?

«Bisogna andare alla radice, l’Europa e gli europei devono prendere coscienza che in Eritrea c’è un regime dittatoriale che costringe la gente a lasciare il Paese. E’ necessario che questo regime venga combattuto, non sostenuto. Molti Paesi, infatti, continuano a vendere armi all’Eritrea. Si parla tanto di democrazia, di salvare gli esseri umani, ma per salvarli bisogna andare alla radice. Se ci fosse più democrazia nessun Eritreo fuggirebbe dal suo Paese per diventare merce dei trafficanti di esseri umani. Inoltre, coloro i quali non possono pagare il riscatto diventano preda dei trafficanti di organi. Ritengo che eliminando il problema alla base si ridurrebbero questi flussi migratori nei quali l’essere umano è trattato come merce di scambio. L’Eritrea è un paese piccolo, ha 5 milioni e mezzo di abitanti ed è ricco, potrebbe vivere di solo turismo e di beni naturali. Da un punto di vista strategico e geopolitico è importante».

Per aiutare i rifugiati nel 2003 ha fondato l’ONG Gandhi

«Gandhi è il soprannome di mio padre, sono un ammiratrice di Mahatma Gandhi, come mio padre che ha sempre fatto la rivoluzione eritrea in maniera pacifica».

A chi è rivolta?

«Ai bambini, ai più vulnerabili, ai più fragili. Abbiamo un centro con 1200 bambini dai i 3 ed i 6 anni. Ci occupiamo anche degli anziani i cui figli sono fuggiti di casa; il governo eritreo li obbliga a richiamare i propri figli in patria o pagare 50 mila nacfa. Non avendo questi soldi si rifugiano da noi. Il più giovane ha 75 anni. Poi le donne maltrattate nei campi profughi, in Costa D’Avorio e in Benin. Siamo presenti in quasi 12 Paesi africani. Abbiamo fatto una coltivazione di mais in Costa D’ Avorio e una scuola per bambini orfani in Benin».

Poi, l’incontro con lo sceicco salafita Awwad Mohamed Ali Hassan?

«E’ stato un incontro molto interessante; due persone di diverse culture e religioni che si incontrano per salvare esseri umani vittime di torture. Un incontro non facile il nostro; la prima volta, infatti, non mi ha dato neanche la mano. Lo sceicco è un beduino del Sinai. Per i salafiti è peccato dare la mano ad una donna. Io ero andata da lui con il burka ed i primi tempi, tra me e lui, c’era il fratello che faceva da interprete. Nel tempo, però, queste difficoltà le abbiamo superate e una volta ci siamo ritrovati con altri beduini a pregare insieme nel deserto per le anime delle vittime. E’ stato per me un momento molto bello. Insieme a lui ed alla sua famiglia abbiamo liberato più di 750 persone dalle mani dei trafficanti, rischiando anche la vita; ci hanno sparato, ci hanno ferito, hanno bruciato le nostre auto, ma siamo ancora vivi (sorride)».

Dove trova tutto questo coraggio?

«Dall’amore che ho per il mio prossimo e per me stessa. Qualcuno, più di 2000 anni fa, ha detto “ama il prossimo tuo come te stesso”. Io, probabilmente, mi amo troppo».

Per il suo impegno ha ricevuto diversi riconoscimenti?

«Ho ricevuto il premio Albero dei Giusti in Israele, in Tunisia e in Italia. I premi sono la voce di chi non ha voce è rappresentano una testimonianza per tutti gli esseri umani che sono morti nel deserto e nel mare che non hanno potuto raggiungere il loro obiettivo: la libertà».

E’ stata più volte in Sicilia. I siciliani si confermano gente aperta all’accoglienza?

«A Lampedusa, dopo il tragico naufragio del 2013, sono rimasta diversi mesi. Ho visto la disponibilità dei lampedusani verso i 150 sopravvissuti. Li hanno, in un certo senso, adottati e, ancora oggi, hanno contatti diretti con loro. La generosità dei siciliani è un dato di fatto. Il Sud è stato da sempre il punto di arrivo per il prossimo».

Ha una storia bella da raccontare?

«Ce ne sono tante di storie belle. Recentemente, in Etiopia, nel campo profughi di Mai Aini, una bambina di 4 anni, che si trovava li con i suoi fratellini di 7 e 6 anni, ad un certo punto, mi tira il vestito e mi chiede: “Tu conosci mia madre?” , rispondo: no, dove si trova tua madre? E lei: “Non lo so, non riesco a trovarla e di notte non riesco più a dormire. Mi fai una foto e la cerchi? La fai vedere a tutti così mia madre mi trova e mi viene a prendere”. Io rimasi scioccata e gli chiesi perché si trovasse a Mai Aini: “Mia madre mi ha detto che noi dobbiamo studiare”, risponde. E tu cosa vuoi fare? Domando: “Io voglio andare a studiare».

Prima di salutarci ho chiesto ad Alganesh cosa avrei potuto fare per aiutare queste persone: “Con la solidarietà nei confronti dei migranti”, risponde: “Questo per noi è un grande aiuto. Il contributo dei giornalisti è il più importante. Bisogna sottolineare che siamo tutti uguali e che non dobbiamo essere indifferenti al prossimo. Date voce a tutti gli esseri umani che sono morti in mare e nel deserto. Loro avevano una famiglia dietro, una storia che dobbiamo vivere come nostra. Farlo capire alla gente spetta a voi”. Della storia della dottoressa Fessaha è stato anche tratto un film: “Alganesh- all’orizzonte una speranza”.

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