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Dalla guerra contro Riina alla fuga in Usa: la saga degli Inzerillo

Di Fabio Russello |

La grande «mattanza» fece mille morti di cui 300 lupare bianche. Venne chiamata la seconda guerra di mafia. Erano gli anni ’80, gli anni in cui la mafia dei «viddani» corleonesi di Totò Riina conquistò Palermo col sangue. Caddero tutti i nemici: da Stefano Bontade a Totuccio, Pietro e Antonio Inzerillo.

Di pari passo con la scalata al potere mafioso, Riina lanciò la sua sfida allo Stato e agli uomini delle istituzioni che rappresentavano una minaccia per Cosa nostra. I superstiti del clan Inzerillo, che avevano nel quartiere di Passo di Rigano la loro storica roccaforte, furono messi al bando dalla Commissione provinciale di Cosa Nostra e cercarono scampo negli Stati Uniti, sotto l’ala protettiva dei mafiosi Gambino. Vecchie storie che tornano nel blitz della Dda che oggi ha portato all’arresto di 19 persone tra cui esponenti delle famiglie Inzerillo e Gambino.

Anni di “esilio” e poi il tentativo di tornare in Sicilia grazie alla mediazione del boss Salvatore Lo Piccolo che cercò di perorare la causa degli “scappati” riammettendoli negli affari dei boss palermitani, in particolare nel traffico di droga. Un ritorno osteggiato dal capomafia Nino Rotolo «fedele» al diktat di Riina.

Della questione delicata venne investito anche il padrino Bernardo Provenzano che non prese mai una posizione netta. Di sicuro gli «scappati», alla spicciolata, a partire dai primi anni 2000 sono tornati e hanno ripreso i contatti con la mafia siciliana. Francesco Inzerillo, soprannominato «Franco ‘u truttaturi» e Tommaso Inzerillo, forti di un tesoro accumulato, entrambi arrestati oggi, si erano ripresi il potere. E dialogavano coi vecchi nemici: come Settimo Mineo, fedelissimo di quel Rotolo pronto alla guerra pur di tenere gli scappati lontano dalla Sicilia finito in cella mesi fa nel tentativo di ricostituire la Cupola di Cosa nostra.

Rotolo era una furia: «Questi Inzerillo erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni… Se ne devono andare. Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti».

Gli scappati, invece, avevano un potente alleato: Salvatore Lo Piccolo, il barone di San Lorenzo. Rotolo non riuscirà a tirare dalla sua parte Provenzano, che prendeva tempo e cercava di mediare: «Ormai di quelli che hanno deciso queste cose non c’è più nessuno – scriveva nelle sue lettere – a decidere siamo rimasti io, tu e Lo Piccolo». La verità è che i soldi degli Inzerillo facevano e fanno gola. Soldi a palate accumulati grazie agli affari con le famiglie americane Gambino e i Calì.

Per toccare con mano cosa accadeva oltreoceano, su volere di Provenzano, partirono Nicola Mandalà, del clan bagherese che proteggeva la latitanza del padrino, e Gianni Nicchi, enfant prodige della mafia palermitana e figlioccio di Rotolo (sarebbe stato arrestato anni dopo dopo una breve latitanza). Ora i nuovi incontri con Settimo Mineo, il capomafia di Pagliarelli e «presidente» della nuova Cupola che si è riunita lo scorso maggio prima di essere decapitata dai carabinieri del Nucleo investigativo di Palermo. Mineo, un rotoliano di ferro che, però, ha smesso di odiare gli scappati.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA