la storia
Dall’Ucraina alla Sierra Leone, i viaggi in guerra di un chirurgo palermitano per salvare vite
Giuseppe Diana ha lasciato gli ospedali del capoluogo per curare in paesi con pochissime risorse
C'è chi la guerra ha scelto di viverla in prima persona. E non certo per sparare, ma per curare, soccorrere. E' la storia di Giuseppe Diana, medico chirurgo palermitano, volontario per vocazione. Figura di spicco all'università di Palermo con una carriera lunga cinquant'anni, Diana ha ricoperto il ruolo di direttore dell’istituto di chirurgia generale e d’urgenza, poi di responsabile e direttore di oncologia. Ma, al culmine della sua carriera, qualcosa dentro di lui è cambiata: «Mi sono dimesso perché non volevo fare più il burocrate - confessa - da allora lavoro come volontario insieme a Rainbow for Africa o Mediterranea, per andare negli ospedali con bassissime risorse nei paesi di economia emergente».
Una missione di vita che l'ha portato in paesi africani poverissimi e, adesso, nei luoghi più scottanti d'Europa, nelle zone di guerra: «In Ucraina con Mediterranea siamo andati a trovare i rifugiati interni, per la maggior parte donne o anziani con bambini. Le donne sono quasi tutte vedove, o mogli di uomini scomparsi. Quelle con la certezza di aver perso i mariti ricevono un'indennità ma non tale da avere una casa visto che continuano a stare nei rifugi. Siamo andati a Leopoli, sembrava il posto più tranquillo e vicino al fronte con la Polonia. E invece a 500 metri da me cadevano i missili. La sera in cui dovevo tornare a casa, hanno suonato tre sirene di allarme che duravano ore. L'ultima, alle cinque del mattino, è durata fino alle dieci e un quarto. Abbiamo ammassato tutto quello che avevamo nei pulmini e siamo corsi alla frontiera. E' stata una tortura psicologica, con l'incertezza di venire colpiti da una bomba».
Diana ha visto con i suoi occhi una popolazione stremata ma che pur nell'emergenza continua non vuole mollare: «Quando gli chiedi se ha senso continuare la guerra, loro rispondono di sì. Nel 2024 hanno ricevuto una visita dai musicisti dottorandi di Music & Resilience, che avevano fatto esperienza a Gaza. Cantavamo tutti assieme, in coro, per farci forza – ricorda commosso - Una signora che abitava nel Donbass mi ha detto “quando finisce la guerra voglio che tu venga a casa mia, porta anche tua moglie e i figli”. La sua abitazione adesso è rasa al suolo, con tutta la città”.
Non solo, dicevamo, l’Ucraina nella nuova vita del medico che ha abbandonato la poltrona per attuare sino in fondo il suo codice deontologico: «Sono stato sulla Iuventa, la prima nave di soccorso nel Mediterraneo a essere sequestrata. In Sierra Leone ho visto le ferite dei colpi di mitra. Sono stato a Samos, vicino alla Turchia, a raccogliere quelli che venivano dalla Siria, e in Bosnia, al confine con la Croazia, a curare le persone che tentavano la fuga. Molti di quelli che scappano hanno studiato, sperano in un futuro. Poi arrivano in Italia e noi li mandiamo via…».
Oltre al dolore, compagno inseparabile, Diana si è anche trovato nel mirino dei kalashnikov: «Nel Sud Sudan mi son impantanato in mezzo alla foresta con una macchina guidata da un parroco e diretta all'ospedale di un villaggio. C'era buio pesto. Ho visto spuntare dagli alberi due canne di fucile. Non ero spaventato, ho pensato di aver fatto quello che dovevo nella vita. Dalla boscaglia è spuntato un uomo che è andato a parlare col parroco. Ho pensato che ci avrebbe fatto fuori. Invece se ne sono andati, salutando rispettosamente. Volevano solo sapere chi fossi, e quando il parroco gli ha detto che ero un chirurgo diretto in ospedale erano contenti di sapere che stavo dando una mano».