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Piersanti Mattarella, a 40 anni dall’omicidio una verità tutta da scrivere

Di Franco Nicastro |

PALERMO – Si conoscono i mandanti ma non i sicari. C’è una verità ancora tutta da scrivere sull’uccisione di Piersanti Mattarella. Quarant’anni fa, il 6 gennaio 1980, la stagione del rinnovamento in Sicilia che aveva come protagonista il fratello del presidente della Repubblica venne fermata a colpi di pistola. L’ordine veniva dalla cupola mafiosa, ma l’inchiesta ha sempre tenuto aperta la pista di una saldatura tra Cosa nostra e l’eversione neofascista.

A batterla per primo e a lungo è stato Giovanni Falcone. Davanti alla Commissione antimafia, che ora ha reso pubblico il verbale dell’audizione riservata del 3 novembre 1988, Falcone aveva spiegato: «Si tratta di capire se, e in quale misura, la “pista nere” sia alternativa a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature». Al centro di questo scenario intrecciato c’è la figura di Giusva Fioravanti, capo dei Nar. La moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, fu colpita dai suoi «occhi di ghiaccio» che neanche si sciolsero quando la pistola si inceppò dopo i primi colpi. Il sicario corse dal suo complice che lo attendeva su un’auto rubata e si fece consegnare una seconda pistola per completare l’opera.

Quell’uomo che rimase defilato è stato identificato in Gilberto Cavallini, altro esponente dei Nar. Ma l’inchiesta non è andata oltre questi sospetti, sostenuti anche da collaboratori neofascisti come Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva. Rinviati a giudizio, Fioravanti e Cavallini verranno assolti e la sentenza sarà poi confermata in Cassazione. Le prove non hanno retto in dibattimento. La pista nera è rimasta sempre aperta ma dopo 40 anni è ormai impossibile provare la tesi che Mattarella sia stato ucciso con la stessa arma usata per abbattere il giudice romano Mario Amato. Il deperimento materiale dei reperti e dei proiettili rende inaffidabile un esame comparativo.

Resta chiaro invece il contesto nel quale il caso Mattarella si iscrive. Per Falcone andava collegato ad altri due delitti “politici». Ne furono vittime nel 1979 il segretario della Dc palermitana Michele Reina e nel 1982 il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Anche loro, come Mattarella, erano impegnati in un’azione di rinnovamento morale della politica in Sicilia. Mattarella era consapevole non solo dei rischi ma anche della complessità dell’operazione. Era a capo di una giunta di centro sinistra che con il sostegno del Pci aveva promosso un’esperienza autonomistica sul modello della solidarietà nazionale.

La linea di Mattarella era parte dell’eredità di Aldo Moro, ucciso un anno e mezzo prima dalle Brigate Rosse. Per questo, come scrissero i giornali, quarant’anni fa la mafia forse con l’appoggio del terrorismo nero firmò il più grave “delitto politico» dopo quello di Moro.

Piersanti Mattarella sapeva che la sua linea politica, incentrata sull’idea di una «Sicilia con le carte in regola», poteva scatenare una reazione di tipo terroristico. Qualche giorno prima di essere ucciso davanti casa, con il fratello Sergio corso a soccorrerlo, aveva incontrato il ministro dell’Interno Virginio Rognoni; alla sua più diretta collaboratrice, Maria Trizzino, il presidente aveva poi confidato: «Se sapessero di cosa abbiamo parlato mi ucciderebbero».

Il pentito Francesco Marino Mannoia ha raccontato che il boss Stefano Bontade avrebbe incontrato Giulio Andreotti, il quale ha sempre vigorosamente smentito, prima e dopo il delitto Mattarella. Nell’ultimo avrebbe gridato al senatore che, uccidendo il presidente della Regione, Cosa nostra avesse voluto lanciare un messaggio alla politica e al Paese: «Qui comandiamo noi». COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA


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