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Cronaca

Quarantuno anni fa l’attentato a Piersanti Mattarella, il politico che credeva nel riscatto della Sicilia

Di Giuseppe Taibi |

PALERMO – Piersanti Mattarella era appena entrato sulla sua Fiat 132; con lui, pronti per dirigersi in chiesa per la messa dell’Epifania, la moglie, i due figli e la suocera. Pochi istanti prima di mettere in moto, il silenzio di una sonnacchiosa via Libertà fu squarciato dai colpi di pistola. Il presidente della Regione Piersanti Mattarella, simbolo del riscatto e di una nuova rivoluzione siciliana ispirata ai valori dell’antimafia, fu ferito a morte. A nulla valsero i soccorsi.

Il primo a precipitarsi a dare aiuto fu il fratello Sergio, che qualche decennio dopo è diventato il presidente della Repubblica. L’immagine del corpo privo di vita adagiato sulle ginocchia del fratello e catturata dalla fotografa Letizia Battaglia oggi è un’istantanea che riempie quel fitto album di morti ammazzati a Palermo. 

Era il 6 gennaio del 1980. E quell’uccisione, tra le più eccellenti delle tante che hanno lordato di sangue la Sicilia, fu avvolta fin da subito dal mistero. Fu la mafia ad ammazzarlo oppure i terroristi neri? Il suo omicidio va inquadrato in seno alle uccisioni eccellenti come Michele Reina e Pio La Torre, o bisogna incasellarla nel clima di tensione di quegli anni? L’ipotesi della “pista nera” non fu mai abbandonata da Giovanni Falcone, che puntava sulla colpevolezza dei terroristi dei Nar Gilberto Cavallini e Giuseppe Valerio Fioravanti. Secondo l’accusa i due, coinvolti in un altro attentato, quello alla stazione di Bologna, nei giorni dell’omicidio si sarebbero trovati a Palermo, trovando appoggio in personaggi dell’estrema destra palermitana.

Negli anni successivi alla morte di Falcone, prese corpo l’ipotesi dell’assassinio per mano mafiosa. Ipotesi suffragata dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia e Gaspare Mutolo. Mattarella avrebbe pagato con il sangue il suo progetto di modernizzare l’amministrazione regionale in nome della legalità. Lui che negli anni era diventato punto di riferimento della corrente legata ad Aldo Moro, lui orgogliosamente in aperto contrasto con Vito Ciancimino e con quel mondo democristiano che orbitava attorno a Cosa nostra. Lui agli antipodi della Dc siciliana che si rifaceva a Salvo Lima.

Nel 1995 vennero condannati all’ergastolo i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Nenè Geraci quali mandanti dell’omicidio. Il filone dell’eversione fu scartato e i terroristi neri Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini furono assolti, nonostante le dichiarazioni della moglie di Mattarella che aveva riconosciuto in Fioravanti l’esecutore materiale dell’assassinio. Testimonianza mai ritenuta attendibile.

A distanza di anni gli esecutori materiali non sono mai stati identificati; le ombre attorno a quel tragico episodio non si sono ancora diradate. Resta però la lungimiranza e l’esempio di un politico che credeva nel riscatto dell’Isola, che progettava il rinnovamento delle istituzioni e la loro liberazione dal giogo mafioso. 

Quest’anno a causa della pandemia sono ridotti gli eventi in ricordo. Cerimonie sobrie si terranno a Palermo, sul luogo dell’eccidio, ed a Castellammare del Golfo, suo paese natale, a causa del Covid. Virus che sta attaccando il pianeta ma che non scalfirà di certo il ricordo del politico. COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA