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Rosario Livatino ora è beato ma Canicattì teme lo scippo: «La salma resti qui»

Di Fabio Russello |

Canicattì. Tra le strade che, almeno nei nomi, odorano di Risorgimento, la questione beatificazione sì o beatificazione no, è già oltre una immaginaria Breccia di Porta Pia.

Perché ora, a Canicattì, la città martire che conta due magistrati uccisi dai killer della mafia, si teme piuttosto che qualcuno (leggi la Curia) possa portare via la salma di Rosario Livatino, giudice ammazzato dai clan nel ‘90 lungo la statale per Agrigento e appena proclamato beato, per trasferirla altrove, forse nella Cattedrale di San Gerlando.

E così nei circoli culturali di Canicattì, che pur ci sono, anche per colpa del covid, la decisione della Santa Santa, che era nell’aria ma che forse è arrivata prima di quanto ci si potesse aspettare, è stata superata dagli stessi eventi. Poca, pochissima, quasi nulla, la discussione sul significato profondissimo e rivoluzionario del primo magistrato che diventa beato perché il Vaticano ne ha riconosciuto il martirio in odium fidei (in odio alla fede). Era talmente credente, Rosario, che, come è emerso dai processi, gli esponenti dei clan canicattinesi lo ritenevano “scimunito” perché troppo di Chiesa. E invece, paradossalmente, Papa Francesco ha dato l’accelerazione decisiva anche per la testimonianza di uno dei mandanti dell’omicidio, la cui parole sono state acquisite durante la seconda fase del processo di beatificazione (portata avanti dall’arcivescovo di Catanzaro, monsignor Vincenzo Bertolone, agrigentino e Postulatore della causa). Fu lui a raccontare quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Un martire della fede, appunto. Il primo magistrato che diventa beato ha un forte significato non solo teologico, ma anche, forse soprattutto, civile. Che va compreso fino in fondo e che va al di là delle richieste di intercessione che si leggono qua e là sui social affinché Rosario ponga fine alla pandemia. Il che contrasta, come ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Paolo Randazzo nella recensione di un saggio di Roberto Rusconi, con la linea del Pontefice che professa di credere nell’efficacia della medicina e di non considerare la pandemia come segno di un castigo di Dio per eventuali peccati e degenerazioni dell’umanità. Probabilmente è l’abbandono di ogni residuo di cultura magica e di tolleranza acritica verso la religiosità popolare. Quindi, in soldoni, dimentichiamoci (o quasi) il Rosario beato da invocare quando qualcosa va male.

E dunque nell’attesa che la beatificazione di Rosario diventi tema di discussione teologica e civile, la disputa è sul destino della salma. Di sicuro c’è che non potrà più stare nella tomba di famiglia nel cimitero di Canicattì dove è sepolto insieme al padre Vincenzo e alla madre Rosalia.

L’ipotesi che metterebbe tutti d’accordo è quella di traslarla nella chiesa di San Domenico, la parrocchia che Rosario frequentava assiduamente e dove pure il padre di Rosario, Vincenzo, agli inizi del processo di beatificazione, auspicava potesse essere trasferita in caso di esito positivo.

«Lo stesso Vincenzo Livatino – ha raccontato don Giuseppe Livatino, uno dei primi tra i postulatori della causa – aveva detto, in mia presenza e davanti a diverse altre persone, che lui avrebbe gradito nel caso in cui il figlio fosse diventato beato, la sepoltura a San Domenico».

Il che taglierebbe davvero la testa al toro perché chi ha conosciuto Rosario Livatino in vita sa bene quanto il magistrato sia stato legato ai suoi genitori. «Separarlo da madre e padre sarebbe un’offesa alla memoria» c’è chi sibila a denti stretti. Ma, da beato, nella tomba di famiglia non può restare perché è diventato, semplificando, patrimonio di tutti.

«Capisco l’esigenza di trasferire in una chiesa la salma di Rosario – ha spiegato Gaetano Augello, che fu professore di Lettere di Livatino al Classico Foscolo di Canicattì e che ha redatto la relatio in re storica per il processo di beatificazione – ma lui era molto legato alla sua città. Penso che l’idea San Domenico sia la migliore, non avrebbe senso trasferire la salma in Cattedrale. Va rispettata la volontà di Rosario così come è giusto che i fedeli possano accedere liberamente per venerare il beato».

Di trasferimento in un’altra città non vuole sentir parlare nemmeno il sindaco Ettore Di Ventura: «In un anno tragico come il 2020 – ha detto – c’è un solo motivo per ricordarlo con gioia ed è la beatificazione del nostro Rosario Livatino. Il faro di fede e giustizia acceso dal suo martirio per mano mafiosa illuminerà per sempre la nostra città. E la beatificazione di Rosario rappresenta una ineguagliabile opportunità da cogliere con rispetto e condivisione. Rispetto principalmente per la sua luminosa memoria e per l’affetto della sua famiglia e dei suoi amici, condivisione perché adesso più che mai è patrimonio universale. Ecco perché ribadiamo la necessità che la salma rimanga qui».

Va detto che nessuna decisione “ufficiale” è stata presa dalla Chiesa di Agrigento. Il cardinale Montenegro probabilmente non disdegnerebbe di portare in Cattedrale la salma, ma, fanno sapere dalla Curia, non è stato deciso nulla. E c’è pure chi rilancia, come l’associazione Amici del Giudice Livatino, una delle più attive nel tramandare l’eredità spirituale di Rosario: «Innanzitutto – ha detto il presidente Giuseppe Palilla – la salma deve restare qui. Ma è l’ora di acquisire la casa di famiglia di viale Regina Margherita e la Ford Fiesta amaranto sulla quale viaggiava il giorno in cui fu ucciso».COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA