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Il catanese che sparò a Palmiro Togliatti: «C’era pericolo del comunismo, non sono pentito»

Di Francesco Saita |

Non ha dimenticato quasi nulla di quel 14 luglio del 1948, quando tre colpi di pistola colpirono Palmiro Togliatti, il leader del Pci, appena uscito dalla Camera dei deputati, in compagnia di Nilde Iotti, sua compagna nel partito e nella vita. Eppure Antonio Pallante, che ha compiuto ad agosto 97 anni, quando premette il grilletto della sua calibro 38 a tamburo ne aveva solo 24. Era uno studente fuoricorso di giurisprudenza a Catania, già simpatizzante del Fronte dell’Uomo Qualunque, ma soprattutto, un giovane ossessionato dalla paura del comunismo in Italia. E non si è mai pentito: “Ho pensato che fosse la cosa giusta da fare per salvare il paese”.

“Di quel giorno – dice in una intervista all’AdnKronos – ho ricordi chiari, e anche dei mesi precedenti”, c’era il pericolo del comunismo e io “ero convinto che l’unica soluzione fosse quella: eliminare il segretario del partito Palmiro Togliatti”. “Un gesto estremo che mi ripugnava umanamente, ma non vedevo alternative” ammette Pallante, che dalla sua Randazzo, alle pendici dell’Etna prese un treno con la pistola in tasca, solo andata per Roma.

La storia del paese, uscito dalle elezioni di aprile ’48, Pallante la ricorda così: “C’erano state le elezioni del 18 aprile e i comunisti avevano perso, ma per me non era cambiato niente”. E allora, l’ex seminarista, poi membro della Gioventù Italiana del Littorio matura la sua decisione.

C’è il tempo per porre all’attentatore di Togliatti, al vecchio che dopo aver fatto l’amministratore di condominio nella città etnea, vive come uno dei tanti pensionati italiani, una domanda sulla politica attuale. “Conte, Salvini, Meloni Di Maio? Credo di essere chiaro dicendo che non penso proprio nulla di loro”. Poi aggiunge, quasi correggendosi: “Di Conte ho la forte impressione che si tratti di una persona perbene”.

Nel salutarci torna il “suo” passato: sappia che “sono uno che ha amato e ama la patria ed è perciò disposto a combattere e soffrire per essa”, dice usando un tempo al presente, che forse non è solo una svista. “Non sono pentito”, assicura, ricordando il momento storico in cui esplose quei colpi che tennero con il fiato sospeso tutto il Paese, sull’orlo della guerra civile, con la celere di Scelba che si scontrava con gli operai in tutte le città italiane.

“Sono credente e il perdono l’ho chiesto anche prima” di puntare la pistola “ma mi sono dovuto sacrificare anteponendo gli interessi della patria”. Ora a prendersi cura di lui, dopo la morte della moglie nel 2013, sono i due figli, Magda e Carmine. “Sa – dice il figlio, chimico e poi manager – papà ha 97 anni e noi entriamo in preoccupazione per ogni raffreddore”.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA