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I cold case di Adrano, parla il pentito di mafia: «Vi svelo perché quei due uomini morirono»

Di Concetto Mannisi |

Adrano. Uno squarcio fra le nubi del passato. Grigie, dense, ammorbate dal puzzo della mafia e dagli esiti delle azioni di cui gli “uomini del disonore” si sono resi, negli anni, protagonisti. Accade fra Paternò, Adrano e Biancavilla, in quella fascia di territorio tristemente conosciuta – e non a caso – come “triangolo della morte”. Là si sparava senza soste e si poteva morire anche per un nonnulla. Magari soltanto per una parentela sbagliata. Come quella di Nunzia Alleruzzo, figlia del vecchio boss Pippo, sequestrata e assassinata con due colpi di pistola alla testa prima di essere fatta sparire dentro un pozzo: è lì che verrà rinvenuta nel marzo del ‘98, quasi tre anni dopo la sua sparizione.

Sembra che “qualcuno” abbia deciso di mettere a tacere la propria coscienza e che per questo stia raccontando alcuni dettagli che potrebbero portare finalmente alla verità, per quanto a distanza di anni, su questo terribile caso.

Ma non è tutto. Perché di cose da raccontare, lì nel “triangolo della morte”, ce ne sono ancora tante. E, magari, a breve, qualche altra importante rivelazione potrebbe arrivare (sempre che non sia già arrivata). Un caso di cui negli ambienti investigativi si parla e che avrebbe portato la Procura distrettuale di Catania a riaprire il relativo fascicolo processuale, delegando la polizia ad indagare, sarebbe quello legato alla scomparsa di Nicola Ciadamidaro, sorvegliato speciale di trentotto anni svanito nel nulla nella prima decade del giugno del 2016. Il più classico caso di lupara bianca.

E’ l’8 giugno quando la madre dell’uomo si reca al commissariato di Adrano per denunciare la scomparsa del figlio. Il quale, per inciso, era gravato da alcuni precedenti per associazione mafiosa. Non per nulla era stato tratto in arresto dalla polizia nell’ottobre del 2006, nell’ambito della cosiddetta operazione “Meteorite” che aveva interessato il gruppo criminale Liotta-Mazzone, da tempo in totale disarmo, che in quegli anni si contrapponeva alle cosche storiche del comprensorio adranita. In particolar modo i Santangelo-Taccuni, considerati direttamente collegati alla famiglia catanese di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano.

Costretto a muoversi su un ciclomotore elettrico dopo la revoca della patente, a seguito della sorveglianza speciale che gli era stata affibbiata, Nicola Ciadamidaro aveva trovato lavoro come custode in un’area destinata a parcheggio dei camion, fra Adrano e Centuripe. Dormiva in una casupola ma non rinunciava, ad esempio, agli allenamenti in palestra, dove pare si stesse recando il giorno della sua scomparsa.

In quella palestra, manco a dirlo, Nicola Ciadamidaro non è mai arrivato. Di lui e del suo ciclomotore si sono definitivamente e totalmente perse le tracce dopo che l’uomo aveva imboccato la strada provinciale 231. A che altezza? A che ora? Al momento non è dato saperlo con esattezza, ma non è escluso, come detto, che qualche importante novità non possa arrivare nelle prossime settimane. E ciò benché autorità giudiziaria e polizia, che stanno sentendo svariate persone, abbiano deciso di mantenere sulla questione il più stretto riserbo.

La speranza di arrivare alla verità, però, è concreta. E non è detto che possa riguardare il solo Nicola Ciadamidaro. Sembra, infatti, che colui il quale (o coloro i quali…) sappia qualcosa di questo caso sia informato – e, quindi, in grado di fornire importanti elementi investigativi – almeno su un secondo caso rimasto, fino a oggi, irrisolto.

Il riferimento, tutt’altro che casuale, è legato all’omicidio del trentasettenne Francesco Rosano, ammazzato a colpi d’arma da fuoco, ad Adrano, il 18 gennaio del 2008.

Parente di quel Valerio Rosano che nel 2017 decise di avviare una collaborazione con la giustizia – peraltro subito portata in piazza dai suoi stessi ex amici, che tappezzarono il centro adranita con annunci funebri su cui era ben visibile la foto del giovane, tutt’altro che defunto – Francesco Rosano fu assassinato con dodici colpi di pistola pochi istanti dopo essersi messo al volante della sua Seat Toledo, poco distante dalla sua abitazione di via Bruno.

Ufficialmente meccanico, altrettanto ufficialmente distante da lustri da logiche criminali e fors’anche semplicemente malavitose, a Rosano fu riservata una fine da boss: due sicari armati di pistole semiautomatiche – allora si disse di due calibro 9 – che cominciarono a sparargli contro senza pietà, crivellandolo di colpi. Poi la fuga.

Le indagini su quel fatto di sangue scattarono immediatamente, ma in qualunque direzione la polizia si muovesse all’improvviso si ritrovava in un vicolo cieco, che costringeva a modificare il senso di quell’attività di indagine.

Adesso, però, come detto, qualcuno sarebbe pronto a porgere il bandolo di quest’altra matassa. E a spiegare perché il custode di un’area adibita a parcheggio di mezzi pesanti e un meccanico che, stando ai si dice, aveva deciso di mettere la testa a posto abbiano dovuto incrociare i loro sguardi con quelli dei killer della mafia. Che per loro, manco a dirlo, non hanno avuto alcuna pietà.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA