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Palamara, l’ombra lunga della pista catanese sulla fuga di notizie

Di Mario Barresi |

Per gli amanti del genere vouyeuristico – letterario delle chat i due sono noti come «Totti» e «Patato» o, in alternativa, «Patatino». Il rapporto di amicizia che legava Luca Palamara a Renato Panvino è ormai un dato assodato della cronaca giudiziaria, con paginate negli scorsi mesi sui giornali nazionali. La novità, adesso, è che nell’informativa del Gico della guardia di finanza di Roma, uno degli atti sfoderati dai pm di Perugia per contestare ipotesi di reato ben più gravi all’ex ras delle toghe, più di 100 pagine (sulle 165 complessive) sono dedicate all’ex capo centro della Direzione investigativa antimafia di Catania. Il quale non è fra gli indagati ed è stato sentito, a lungo, domenica scorsa come persona informata sui fatti.

Perché è così preponderante il peso di Panvino per chi vuole dimostrare che Palamara sia stato, fra l’altro, l’artefice della fuga di notizie nell’inchiesta della Procura di Messina sugli intrecci corruttivi del sistema Siracusa? Il compendio probatorio (178 contatti telefonici dal 15 maggio 2017 al 1° marzo 2019; migliaia di messaggi WhatsApp; vacanze assieme, alcune delle quali pagate dall’imprenditore Fabrizio Centofanti, fra gli imputati davanti al gup di Perugia) è quasi tutto riversato dal fascicolo originario.

Ma nell’ultima ricostruzione del Gico, depositata al pm Mario Formisano meno di una settimana fa, ci sono un paio di elementi nuovi. Il primo è la testimonianza di Bonaventura Candido, prestigioso avvocato messinese, difensore dell’ex pm Giancarlo Longo nel troncone principale dei processi sul “sistema Siracusa”. Sentito lo scorso 9 febbraio, Candido, dopo aver ammesso i suoi contatti con Piero Amara (grande accusatore del procuratore generale di Messina, Francesco Barbaro, che smentisce con forza ogni coinvolgimento nella vicenda), a un certo punto Candido ricorda che lo stesso Amara «faceva riferimento ad una persona della polizia giudiziaria che lavorava a Messina che gli faceva pervenire delle informazioni sulle indagini. Tale persona, a suo dire, era un uomo che proveniva dalla zona di Catania o era residente nella zona Catania». Ma chi lo interroga gli fa una domanda specifica: «Amara le parlò mai del dottor Panvino?». La risposta di Candido, a questo punto, è più esplicita: «Ora che me lo dite, ricordo che di questa persona Amara mi parlò in più circostanze ed è la persona di cui ho fatto menzione in precedenza. Mi disse che aveva un rapporto personale con lui e che aveva da tale persona informazioni sulle indagini. Diceva che aveva un canale a Roma ed uno sul posto. Nel mio ricordo – prosegue il verbale dell’avvocato Messinese – tale ufficiale era il canale attraverso il quale lui cercava conforto e riscontro su ciò che proveniva da Roma». Candido conclude ricordando che Amara «mi riferiva che Panvino era una persona di primo piano e di lui mi parlava spesso come fonte delle sue conoscenze sull’andamento delle indagini». In una memoria, il giorno dopo essere stato sentito dai pm, l’avvocato in parte ritratta. «Devo, però, doverosamente precisare che in quella occasione (cioè quando Amara gli avrebbe parlato delle indagini, «tutta fuffa», attribuendo la definizione a un colloquio fra Barbaro e Palamara, riferitogli da Centofanti, ndr) non ricordo che Amara fece esplicito riferimento a Panvino, né che utilizzò il termine “fuffa”».

Amara, nel verbale d’interrogatorio citato (con molti “omissis”) nell’informativa, non parla mai di Panvino. E un altro particolare affievolisce l’utilità del poliziotto come “corvo”. Nell’inchiesta romana sulle sentenze pilotate al Consiglio di Stato, infatti, viene arrestato un maresciallo dei carabinieri, Francesco Loreto Sarcina, ex Aisi. Ed è proprio Amara a incastrarlo. Interrogato il 17 luglio 2018 riferisce dell’amicizia del socio Giuseppe Calafiore con «tale Francesco o Franco, un dipendente della Presidenza del Consiglio dei ministri» che «aveva loro riferito notizie interne alle indagini e consegnato l’informativa del 15 settembre 2017 in formato word». L’avvocato avrebbe incontrato l’ex 007 tre o quattro volte. «Ci disse che ci avrebbe tolto dai guai sia per l’indagine di Messina sia per quelle di Roma avvalendosi di suoi uomini».

Ma il nome di Panvino spunta in un altro atto, firmato da un magistrato. Cioè Antonio Carchietti, fra i pm impegnati proprio nell’indagine sul sistema Siracusa. La nota è del 29 marzo 2018. E racconta un episodio di due giorni prima nel carcere romano di Regina Coeli, subito dopo l’interrogatorio di Amara. Il cui legale, Angelo Mangione, rientra nella stanza e chiede «espressamente» a Carchietti e al procuratore capo Maurizio de Lucia «che non venisse fatto cenno alcuno, all’indirizzo del dott. Renato Panvino, in ordine che l’Amara potesse valutare l’adesione ad una scelta processuale incentrata su contegni latu sensu collaborativi ai fini del più ampio accertamento dei fatti». Tradotto dal magistratese: l’avvocato Mangione chiede ai pm di Messina di tenere all’oscuro il capo della Dia rispetto al “pentimento” di Amara. E questa circostanza richiama alla memoria di Carchietti un episodio risalente agli «ultimi mesi dell’anno 2017», poco dopo perquisizioni e sequestri sul sistema Siracusa. Panvino, scrive il pm «venne insieme a un suo collaboratore, di cui non ricordo il nome» e «manifestò l’intenzione di salutarmi» e «successivamente “condusse” il discorso sulla vicenda Siracusa». Il capo della Dia ha dell’indagine una «conoscenza embrionale», risalente all’epoca in cui gli otto magistrati aretusei presentarono un esposto da cui partì tutto, tanto più che Barbaro, all’epoca procuratore facente funzione, sostiene Carchietti, «chiese al dott. Panvino, alla mia presenza, la disponibilità della Dia di Catania per lo svolgimento dell’attività d’indagine». Ma lui, visto «l’elevato carico di lavoro» già in corso, rifiutò.

Una circostanza incompatibile, al dire il vero, con chi avesse intenzione di mettere le mani su un’inchiesta in cui erano coinvolti gli amici del suo amico Palamara, dai quali – come lo stesso Panvino avrebbe rivelato ai pm di Perugia – ha provato più volte a metterlo in guardia, «perché non mi ispiravano fiducia» e dunque «gli consigliavo di frenare». Carchietti, nella nota inviata mesi dopo l’insolita visita («mai aveva assunto l’iniziativa di passare a salutarmi») definisce «singolare» il discorso del suo interlocutore che «innestò una più ampia riflessione il cui nucleo concettuale, che mi parve palesarsi come la vera ragione della “visita”», starebbe «nell’importanza di orientare il convincimento investigativo su dati certi e non su “suggestioni” derivanti da mere situazioni conflittuali».

Il pm, nella nota di fine marzo 2018, scrive che «non ho più avuto occasione di incontrare il capo centro». Alla Dia di Panvino, nei mesi successivi, la Procura di Messina affiderà almeno due deleghe delicate, entrambe riguardanti le toghe: una sul depistaggio di via D’Amelio, una su un presunto abuso d’ufficio nel Ragusano a carico di un magistrato catanese.

E qui si arriva al punto finale. Panvino, trasferito a Nuoro nel maggio 2019, è uno “sbirro” dal curriculum importante, arricchito da operazioni su mafia e colletti bianchi nei sui cinque anni in Sicilia tanto da far coniare la definizione di “modello Catania” per il lavoro alla Dia. È “colpevole” di un’amicizia a tratti sin troppo stretta con Palamara (fino a chiedergli, nelle chat, anche qualche “aiutino” per la sua carriera), all’epoca il più potente magistrato d’Italia, legato a un imprenditore, Centofanti, frequentatore di ministri e importanti pezzi dello Stato. Nelle carte, certo, ci sono tante suggestioni. Le foto a Ibiza, i conti di alberghi e ristoranti, le feste di compleanno e le chiacchierate complici anche sui politici. C’è anche l’ormai arcinota vicenda dell’anello acquistato da Panvino, in parte anticipando soldi suoi, in una gioielleria di Misterbianco (curiosamente la stessa scelta da Luigi Di Maio come tappa etnea nel suo tour elettorale, il 25 ottobre 2015, fra le «eccellenze siciliane») su commissione di Palamara che doveva regalarlo all’amante Adele Attisani. Eppure il dirigente di polizia finora non risulta coinvolto nell’inchiesta di Perugia. Che però adesso fa un salto di qualità, con le nuove accuse all’ex dominus del Csm sulle fughe di notizie a Roma e a Messina. E in questo contesto gli investigatori inseriscono una certa mole di atti (molti dei quali già conosciuti) riguardanti «il ruolo» di Panvino e i suoi «rapporti» con Palamara e Centofanti, «il Piccoletto» nelle chat. Ma la verità, a questo punto, si trova a un bivio. Panvino, ricordato a Catania come un poliziotto di rango, oltre ad avere frequentazioni ex post pericolose, è davvero sospettabile di essere la talpa di indagini delicatissime? Oppure, non essendo coinvolto in prima persona nell’indagine sulla fuga di notizie sull’asse Messina-Siracusa, la grande attenzione giudiziaria (e poi anche mediatica) su di lui nasconde qualcosa di diverso.

Magari, come sospetta sotto il Vulcano chi lo conosce bene, una postuma resa dei conti per alcune indagini della sua Dia, che, guarda caso proprio a Messina, hanno toccato i fili ad alta tensione della massoneria. Che nella sponda siciliana dello Stretto accomuna, talvolta con legami di parentela, potenti dentro i più svariati palazzi. Compresi quelli frequentati, per lavoro, dallo stesso Panvino.

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